C’è come l’urgenza di una riflessione da avviare, e da proseguire possibilmente senza paraocchi identitari, su ciò che resta dell’antifascismo nell’Europa di oggi, e segnatamente, in Italia. Riguarda i modi, i tempi e i criteri con i quali esso si proietta, e si trasfonde, nelle generazioni più giovani. Siamo entrati da tempo in una nuova stagione politica, caratterizzata dall’erosione del sistema dei diritti per come sono stati pensati dal secondo dopoguerra in poi. La vera sfida è che per le generazioni che stanno entrando sulla scena collettiva, al mutamento imposto dalle configurazioni di un’economia della trasformazione permanente si accompagni l’annichilimento stesso del diritto di sentirsi titolari di diritti. È questo, in fondo, il vero punto critico da cui partire.
Ossia, non da cosa resti del «fascismo», sul quale ci si accapiglia rispetto alle tante, possibili definizioni, bensì di una diffusa e pluralista sensibilità libertaria (la chiameremo così, in assenza di altre parole maggiormente appropriate), che è stata trasversale alle culture politiche progressive, partendo dal primo Novecento per arrivare fino ad oggi. Affinché non si spenga invece nelle secche del vuoto di coscienza.

IL NUCLEO DELL’ANTIFASCISMO, infatti, riposa anche e soprattutto in questa transitività, che rimanda da subito al problema della formazione di una coscienza politica autonoma. La quale deve riuscire a riannodare la dignità individuale con l’azione sociale, entrambe nel loro essere parti di un unico modo di affrontare il discorso sul tempo presente e, soprattutto, a venire. Il tutto, al netto dei moralismi così come dell’indignazione, quest’ultima in quanto condizione ormai molto diffusa dello spirito impotente.
Poiché altrimenti l’unica alternativa rischia di essere la lamentosa ricorsività di un falso dibattito, incartato e ripiegato su di sé e declinato, in modo maniacale, sul nominalismo scolastico, sull’accapigliarsi rispetto all’aderenza o meno di un termine rispetto ad una o più situazioni storiche, sull’improbabile ipotesi di ripetibilità dei trascorsi e così via. Un discutere, per l’appunto, che tale non è, trattandosi semmai della spia di una mancanza di prospettive, coperta dalla cortina fumogena dell’eterno chiacchiericcio.
Letta in questi termini, per nulla generici, l’emergenza che da tempo accompagna non solo l’Italia ma anche l’Europa è – infatti – non quella del «ritorno del fascismo» ma, piuttosto, il tema del declino della coscienza antifascista. Il suo crepuscolo è infatti legato alla crescente fragilità delle democrazie sociali, le vere vittime della lunga transizione dalle società industriali, affermatesi definitivamente nel Novecento, ad assetti ancora a venire ma senz’altro caratterizzati da una volatilità e una volubilità della rappresentanza collettiva.

QUESTI ED ALTRI PENSIERI sono sollecitati dalla lettura del volume di Carlo Greppi, L’antifascismo non serve più a niente (Laterza, pp. 136, euro 14), repertorio delle ragioni e delle azioni dell’antifascismo e della Resistenza, dalla nascita del mussolinismo ad oggi. L’autore rende omaggio, più che ad un percorso storico in senso stretto, semmai ad una dimensione etica dell’agire collettivo, identificandola nella coscienza antifascista. La quale, nelle sue pagine, diventa espressione di un principio universale, quello della presa di posizione, dell’impegno e dell’intervento attivo, di contro non solo alle derive autoritarie ma soprattutto alla tentazione delle deleghe così come anche alla seduzione della disintermediazione. In questo volere identificare nell’antifascismo non un presupposto atemporale ma il bisogno di un tessuto connettivo al quale rivolgersi per progettare il futuro, Greppi, che appartiene ad una giovane generazione di studiosi e di storici, più che coltivare improbabili nostalgie esprime il bisogno di una piattaforma di contenuti politici dai quali muoversi per riformulare daccapo il senso dei tempi a venire. Altrimenti, pare di capire tra le righe, il rischio è che se non si pensi ad essi la sconfitta sia già scritta a prescindere. Il recinto di fondo che l’ordine delle riflessioni ci consegna è peraltro disegnato dal problematico rapporto tra violenza, liceità e legittimità, in un campo di forze non solo contrapposte ma inconciliabili.

In gioco sono soprattutto questi tre elementi. Il primo di essi è la questione della plausibilità della violenza come evento generativo, dal quale promanano nuovi equilibri destinati poi a radicarsi e a sedimentarsi nel corso del tempo. Nel discorso politico odierno, non a caso, la riflessione sulla violenza non è solo condannata ma esorcizzata come un tabù. Quindi, espunta dall’orizzonte del ragionamento. Eppure, proprio il rifiuto del fascismo storico rimanda, più in generale, ad una presa di posizione non esclusivamente etica bensì politica sulla violenza come sopraffazione organizzata e generalizzata. A quest’ultima, ricorda l’autore, storicamente si è risposto con la rottura del monopolio istituzionale della forza e la sua riassunzione da parte della collettività, riformulatasi come soggetto politico in forme inedite di autogestione militante.

IN ALTRE PAROLE ancora, ciò che l’antifascismo ha storicamente dimostrato è che le crisi di qualsivoglia regime si risolvono quasi sempre al di fuori degli ordinamenti che quello stesso regime ha prodotto come forma materiale di autoaffermazione. In questa dinamica riposa il rapporto tra radicalità e discontinuità che è parte fondamentale dell’antifascismo: la messa in discussione, alla radice, di un circuito di oppressione non solo politica; la disarticolazione, attraverso atti di deliberata rottura, di un sistema di potere che si presentava invece come destinato a perpetuarsi nel tempo, poiché «naturale» espressione degli interessi di un’intera collettività. Il secondo tema di fondo rimanda alla liceità del ricorso alla forza: è guerra civile non solo ciò che contrappone i civili della medesima nazione, separati da linee di divisione inconciliabili, bensì la lotta per definire quale delle parti in campo sia destinata a identificare (e imporre) i parametri di una nuova liceità politica, istituzionale e finanche sociale.

La guerra civile ha una natura rigorosamente «partigiana» poiché, di contro alla falsa narrazione di una fittizia unitarietà, richiama alla necessità di scelte di campo così come alla rivendicazione non solo di «prendere parte» ma di «essere una parte» e non il tutto. Qualsiasi diritto conculcato potrà essere ripristinato solo se il pluralismo romperà i falsi crismi di una mortifera uniformità di cui i fascismi sono l’espressione più esasperata. Anche per questa ragione la «guerra civile» porta con sé un sovrappiù di livori e rabbiosità, destinato a non esaurirsi con la fine dei combattimenti. Il tema della lunga durata nelle contese, manifestatesi sia con la «violenza inerziale», quella che proseguì, perlopiù come prolungato regolamento di conti, dopo la conclusione del conflitto armato, sia con la feroce delegittimazione – giunta fino ad oggi – della parte contrapposta, si inscrive in una dinamica dove la posta in gioco è la definizione di un’identità collettiva nazionale come anche dei mutevoli equilibri di poteri che da essa derivano. Le retoriche della «condivisione» e della pacificazione non segnano solo l’annullamento della prospettiva storica ma anche l’esercizio di una rivalsa proprio da parte di quanti erano stati espulsi dal campo della politica poiché negano alla politica medesima la sua natura plurale. Non a caso il terzo fattore è la legittimità, quella dell’esercizio di un nuovo potere di imperio che nella vicenda resistenziale italiana portò alla definizione di un inedito e innovativo assetto costituzionale, oggi profondamente eroso dal mutamento in atto.

DENTRO UNA TALE CORNICE, è pressoché inevitabile che il rapporto tra antifascismo, Resistenza e Costituzione rimanga a tutt’oggi problematicamente irrisolto per una parte degli italiani. Poiché indica ad essi il senso della sconfitta subita a causa di quel medesimo conflitto che avevano concorso a scatenare con il loro elogio dell’astensione. L’antifascismo fu e rimane fenomeno minoritario proprio perché sradicava radicalmente quella coltre di conformismo e qualunquismo che invece costituisce uno dei fondamentali calchi di una parte del Paese, quella intenta a rivendicare la propria persistente irresponsabilità civile. Quanto di ciò resti, ovvero molto, è il punto da cui ripartire per comprendere quale sia il difficile futuro della politica e con esso del rapporto tra libertà e giustizia, in un’età dove l’elogio della diseguaglianza ha ripreso corpo e sostanza.