Julie è una ragazza che si cerca, studentessa modello di medicina all’improvviso scopre che la sua vocazione è un’altra: psicologa. Sostenuta da una mamma sempre sorridente, taglia i capelli, li tinge di rosa, lascia il fidanzato e inizia a frequentare i nuovi corsi. Ma neppure qui si sente a suo agio, e un’intuizione le fa capire che il suo avvenire sarà quello di fotografa. Inizia a scattare foto in posa, è seducente, brillante, ha molte storie finché non incontra Aksel (Anders Danielsen Lie), autore di fumetti di successo. Lui è molto più grande, e ha paura che questa distanza la faccia fuggire, ma è proprio quando glielo dice che Julie si innamora di lui. La loro vita insieme è appena iniziata… Joachim Trier, danese, è un autore di Cannes, al Certain Regard con Oslo, 31 August (2011), grande successo in Francia, ispirato al romanzo di La Rochelle Fuoco fatuo, e in concorso col successivo Segreti di famiglia (Louder Than Bombs, 2015), torna sulla Croisette con The Worst Person in the World, ancora in gara per la Palma d’oro. Una commedia al femminile, con scrittura lieve questo suo film che nelle intenzioni dell’autore chiude la trilogia su Oslo – dove infatti è ambientato. E a proposito di donne: il Festival di Frémaux ha voluto sottolineare la presenza femminili, insieme all’attenzione per i cambiamenti climatici segno dominante dell’anno. Ma: che vita hanno sullo schermo le figure femminili, o nell’immaginario, nelle mitologie? «Le donne alla Factory non avevano tanto spazio» dice Amy Taubin nel film di Todd Haynes (molto bello) passato fuori concorso, sui Velvet Underground (di cui parleremo). Si doveva corrispondere a un certo modello – di fatto essere molto bella – altrimenti non c’erano possibilità. E ora?

TORNIAMO al film di Trier. Chi è dunque «La persona peggiore al mondo»? La stessa Julie, probabilmente, che oscilla nelle incertezze fragili dei suoi non ancora trent’anni in un lavoro precario da libraia, tra le difficili relazioni famigliari con la madre che non ha perdonato al padre di essersene andato – ha una nuova famiglia – anche se la gentilezza molto nordica non prevede scenate. Questi d’altra parte, il padre, è abbastanza orrendo, egotico coi suoi «doloretti» -alibi – non va mai a trovare Julie e il compagno per non pagare il parcheggio e al compleanno le regala una tuta (bruttissima) uguale a quella dell’altra figlia ragazzina. Intanto il fidanzato, quando non è assorbito dalla creazione, comincia a chiedere la famiglia, i figli, i suoi amici li hanno e le loro mogli quella ragazza giovane e bella la guardano con sospetto. Meglio rassegnarsi? O magari cercare un nuovo amore?
In 12 capitoli Trier segue la la sua protagonista per quattro anni: cosa accade a Julie? È che lei si sottrae a quei passaggi della vita più o meno stabiliti, cerca una sua lingua, scrive articoli sulla sessualità femminile – di cui si parla poco mentre gli uomini sono sempre al centro del discorso – ma soprattutto continua a sentirsi fuori posto.

«Julie (En 12 Chapitres)» di Joachim Trier, foto cortesia Oslo Pictures

NELL’INTERVISTA sui materiali stampa, Trier spiega che l’idea del suo film è quella di confrontarsi con gli interrogativi esistenziali che possono riguardare chiunque al di là del gender: «La scelta di mettere al centro un personaggio femminile non è per fare un discorso generale su cosa significa essere donna oggi». Infatti Julie è Julie, un personaggio appunto, che dialogando con situazioni contemporanee appartiene alla «tradizione» della commedia d’amore, e come tale attraversa una serie di archetipi narrativi, sorriso, umorismo, malinconia, che Trier adatta al proprio racconto, complice la sua meravigliosa interprete, Renate Reinsve, giocando con citazioni – c’è qualcosa di rohmeriano nei dialoghi filtrato attraverso il nord, e una panchina all’alba fa pensare a La La Land.
Sono i movimenti di questa ragazza – non «parlare di donne» – l’amore, la famiglia, il rapporto con l’età adulta che interessano Trier, quasi come in un romanzo di formazione, che rimane aperto, forse irrisolto perché la vita non sempre trova delle risposte.
Una figura femminile è anche il cuore di Clara Sola, sorprendente opera prima di Nathalie Alvarez Mésen, costaricana, presentato alla Quinzaine.Siamo cinematograficamente agli antipodi di The Worst Person in the World: se qui infatti abbiamo un cinema di dialoghi, di scrittura, Alvarez Mésen lavora invece su una fisicità quasi materica, come se ogni inquadratura fosse «impastata» nel fango, nel verde, tra gli animali, e soprattutto sul corpo sacrificato e bruciante della sua protagonista (Wendy Chichilla Araya). Cosa ci dice Clara, giovane donna «condannata» sin dalla nascita da un difetto alla colonna vertebrale che peggiora col tempo e che la madre non vuole fare curare? «Dio me l’ha data così, io gliela renderò così» dice ai medici. In realtà le serve questa deformità per aumentare il carisma della ragazza, che tutti credono dotata di poteri taumaturgici, si dice in giro che le sia apparsa la Vergine, e la piccola casa nella foresta è un luogo di pellegrinaggio.

CLARA non è mai uscita di lì, non sa muoversi da sola, la casa è carica di santini e madonne, l’unico svago è la telenovela, gli uomini sono proibiti del resto la madre pensa pure che lei sia mentalmente ritardata. Invece coccola la nipote, bella, adolescente, che un po’ si prende cura di quella strana zia. Ma Clara ha una sensibilità diversa, sa guardare dentro le profondità dell’animo, sa dire i nomi «segreti» delle cose, è connessa con la natura, con l’animalità, col suo amato cavallo bianco, Yuca, che non vuole vendere, è il suo spirito protettore, la purezza del manto si specchia in quella del suo abito di festa.
Clara freme di desiderio, le piace toccarsi, masturbarsi tra le foglie del bosco, quel corpo ingiuriato ritrova un soffio, che si fa ribellione alla condanna, al silenzio, allo sfruttamento. La regista lavora sul paesaggio e lo rende protagonista come parte del personaggio, alla luce predilige le tonalità della penombra ritrovando un certo sentimento di surrealismo magico dell’immaginario latinoamericano nella sua santa profana ma sempre in forma concreta, sempre appunto come corpo. E metterlo in primo piano pur procedendo in un contesto di astratto, crea il conflitto che è la scintilla del film: a partire da qui compone il percorso di una liberazione personale che può naturalmente anche essere vista con un la spinta a una coscienza collettiva.

UNA RIVOLTA a quanto costringe nei ruoli, in quell’universo femminile dove le sole presenze maschili sono due ragazzi, ma che riflette il dominio del patriarcato e di un puritanesimo soffocante. Alla religione finta Clara oppone la spiritualità del desiderio, il piacere alla mortificazione, figura libera dentro al mondo che il cinema rende viva.