Fin troppo facile ricorrere alle note immagini gaddiane per evocare la storia testuale del più grande romanzo italiano del Novecento. Un «nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero», come nel celebre incipit del Pasticciaccio. O forse «un intreccio, e quale ingarbugliato intreccio!», come la vita stessa che Gadda cerca di trasporre in trame romanzesche già dal Racconto italiano di ignoto del Novecento, nel 1924. Destino singolare, forse paradigmatico di un testo così rappresentativo dell’intero secolo e al tempo stesso avvitato nella spirale nevrotica di una soggettività, «tragica autobiografia» in cui Gadda non (si) risparmia nulla – la madre, il padre, l’infanzia, la povertà, la guerra, la morte del fratello, la nevrosi, la borghesia lombarda, il fascismo. Del resto lo aveva anticipato a Gianfranco Contini in una lettera del 26 maggio 1936, poco dopo la morte della madre, descrivendo «grane» e «grattacapi» procurati dalla casa di campagna a Longone, più molesta di «una suocera isterica»: «mi vendicherò».

Sta di fatto che la vicenda compositiva e editoriale della Cognizione del dolore potrebbe figurare perfettamente tra gli esempi con cui Gadda illustra «la coscienza della complessità», la visione del mondo come «sistema di sistemi di sistemi», il «rovello interno a voler risalire il deflusso delle significazioni e delle cause». È la tormentatissima storia che viene ora ricostruita in modo puntuale, non senza un certo garbo narrativo, dai curatori della nuova e molto attesa edizione del romanzo, Paola Italia, Giorgio Pinotti e Claudio Vela (pp. 381, euro 24,00) che proseguono il lavoro di ripubblicazione delle opere di Gadda intrapreso da qualche anno presso Adelphi. La lunga Nota al testo (circa 80 pagine, più 35 di note) è dedicata in gran parte allo scioglimento di questa matassa, tra un’infinità di dettagli e rivoli narrativi: i brucianti nuclei biografici, l’intreccio fra tradizione manoscritta e tradizione a stampa, gli strati redazionali e le molteplici versioni del testo (a puntate sulla rivista «Letteratura» nel 1938-41, poi in volume presso Einaudi nel 1963, poi in una nuova edizione con due capitoli supplementari nel 1970, risistemata a sua volta nel 1971), il problema dell’incompiutezza, le snervanti trattative con editori e redattori che culminano nel duello decennale tra Livio Garzanti e Giulio Einaudi, il rapporto con altri progetti e la prassi gaddiana di estrapolare brani da libri precedenti per pubblicarli in altra sede, spesso dopo capillari revisioni.

Un testo mobile
«Negli archivi c’è tutto», proclamano i curatori con invidiabile entusiasmo e la passione filologica che traspare da questo lavoro, a cui non manca il gusto della detection. Così ad esempio ci raccontano, nella seconda sezione della Nota al testo, la «tormentata storia» di Villa Gadda a Longone, «una sorta di romanzo nel romanzo» ricostruito attraverso documenti, fatture e atti notarili ripescati negli archivi, in un «labirinto di rogiti, scritture private, atti di notorietà ingialliti dal tempo».

Oltre al gusto del dettaglio filologico, a volte esagerato per un’edizione come questa (numero dei mappali catastali, prezzi delle compravendite, elenco delle ditte che hanno realizzato i lavori), il minuzioso censimento di realia e riscontri empirici si basa su un assunto critico, o più modestamente sulla convinzione di portare un altro contributo agli studi gaddiani. E se certo è eccessivo (o provocatorio) dire che «Gadda non ha inventato nulla», è vero che alcuni documenti «fanno toccare con mano, più di quanto non fosse genericamente noto finora, la sostanza autobiografica della pagina gaddiana». Una trasparenza referenziale che rende ancora più inquietante questo romanzo scritto in forma di vendetta, perfido esorcismo, forse una delle più spietate e liberatorie rese dei conti con la propria autobiografia mai perseguite da uno scrittore. E come sempre è meglio non chiedersi, pensando alla sua maniacale ritrosia, come reagirebbe Gadda di fronte a tanta e scrupolosa esibizione dei suoi affari privati e familiari. Ma il cammino della conoscenza, come sapeva lui stesso, richiede questi e ben altri dolori.
Quanto alle scelte editoriali, i curatori assumono opportunamente un atteggiamento «cauto e conservativo».

Basano il testo sulla quinta edizione in volume, uscita da Einaudi nel giugno 1971, di cui conservano (salvo pochi interventi indispensabili) tutte le peculiarità grafiche, morfologiche, di accentazione e punteggiatura. Al di là delle opzioni filologiche, sempre inevitabilmente opinabili, questa decisione cela un assunto teorico condivisibile: che il testo non è fisso, immutabile, impresso a caratteri di fuoco dal dito di Dio (o dell’Autore); che il testo – qualunque testo – affiora da uno spazio di transazione costellato di errori, ripensamenti, mediazioni, compromessi, vincoli materiali e condizionamenti editoriali; che il sogno selvaggio di una certa filologia positivista (ricostruire il testo corretto, originale, autentico) è nel migliore dei casi un’utopia, e nel peggiore un errore metodologico che disconosce la storicità dei fenomeni culturali, il fatto che la stessa nozione di testo a cui siamo abituati (scritto, fisso, stampato, preferibilmente rilegato in forma di libro) è a sua volta un prodotto della storia. Il che vale a maggior ragione per un «testo mobile» come questo, secondo la definizione dei curatori, caratterizzato da «un tragitto metamorfico» e da «una fisionomia sorprendentemente mutevole».

Dalla nuova edizione ci si poteva forse aspettare qualche materiale inedito in più, visto che la filologia gaddiana (ormai un capitolo a sé nello studio dei testi novecenteschi) è ricca di sorprese e trouvailles, anche recenti. In coda al romanzo spicca comunque, magnifico e inquietante, ottimo regalo ai lettori, un testo inedito in due redazioni, Ricordo di mia madre, in cui Gadda risponde per iscritto a un’intervista che avrebbe dovuto uscire su «Oggi». Ottima anche la decisione di includere nel volume un «Dossier genetico» in cui presentare al lettore alcuni materiali preparatori già pubblicati da Emilio Manzotti nella sua preziosa edizione Einaudi del 1987, ormai introvabile da molto tempo, inspiegabilmente esclusi invece dal primo volume delle Opere Garzanti dirette da Dante Isella, dove la Cognizione è curata dallo stesso Manzotti.

Pensare è far accadere
È in questi satelliti testuali, tanto per dire, che si trova la «soluzione» psichica e filosofica del mistero del romanzo, chiuso sulla tragica aggressione ai danni della madre di cui restano formalmente ignoti i moventi e i responsabili. Tra i frammenti genetici si trova infatti un «autoritratto del figlio» in cui Gonzalo, immobile di fronte allo specchio, viene paragonato a Rodrigo Borgia, talmente proiettato nel «segreto insondabile di papa Lissandro» da vedersi «secondo questa immaginaria (delirante) interpretazione». «Nel giuoco drammatico», annota Gadda, «questo autoritratto deve esprimere: a) il senso di colpa e di rimorso preventivo. b) il carattere delirante e meramente immaginario della sua vendetta». Segue una densa osservazione «gnoseologica»: «Forse a lato della realtà fisica, meccanica, bassamente stereometrica, bassamente storica = corre una trama spaventosa e vera, uno spaventoso pensiero. E la cosa o l’atto pensato è più vero dell’accaduta o dell’eseguito. Egli si sentiva perduto, vedeva che l’esser venuto tra le imagini era solo un antefatto della propria rovina. Ma ogni imagine è già l’attuato orrore, è il male, il termine, il limite che ci esclude da Dio. Come leggesi nel vangelo di Luca, “chi guarda una donna ha già commesso adulterio”».
Se da qui si vede che a Gadda in fondo non interessa la consecuzione meccanica dei fatti, che poco importa identificare penalmente il colpevole perché «il senso tragico del matricidio» si sprigiona da ogni piega del romanzo, da ogni «imagine» e fantasma che attraversa la mente di Gonzalo, soprattutto dal «sogno spaventoso» che racconta nel terzo capitolo, ora possiamo far risuonare questa ossessione con un brano dell’intervista inedita Ricordo di mia madre, dove è Gadda stesso a parlare: « mi versò nel sangue, quasi eredità biologica, il senso della povertà semplice, l’avversione della montatura degli affetti simulati, delle frasi, la ritualistica inane delle otto e mezzo e delle dieci e tre quarti, questo finto libro d’ore per i doveri simulati. Io ci aggiunsi, all’eredità, l’orrore delle immagini, in modo particolare l’odio della mia immagine, iconoclasta o almeno autoiconoclasta assoluto, teoretico e pratico».