In Tunisia non c’è la guerra, dice il ministro dell’Interno, da lì non si deve emigrare. Per Salvini solo un conflitto è ragione (più o meno, non sempre) legittima per cercare rifugio all’estero.

Premessa sbagliata: l’umanità è frutto di migrazioni, un fenomeno naturale e non «emergenziale» e ognuno dovrebbe essere libero di muoversi a prescindere dal luogo di origine. Ma fingiamo che non lo sia e chiediamoci: perché i tunisini lasciano il loro paese? La ragione è facilmente comprensibile: si emigra per povertà e per il sogno di un futuro dignitoso.

Il paese nordafricano è considerato l’unica riuscita primavera araba, la sola rivoluzione – tra le tante che hanno modificato in pochi anni il volto del mondo arabo – a non essere degenerata in una guerra civile o una dittatura. Innegabile: è stato il primo paese dell’area ad andare a elezioni libere nel 2011 e ad approvare una Costituzione progressista. Non significa, però, che le ragioni strutturali che spinsero il 7 dicembre 2010 Mohamed Bouazizi, venditore ambulante di 27 anni, a darsi fuoco in piazza a Sidi Bouzid siano scomparse.

Quel «suicidio politico» – estrema forma di protesta contro corruzione, disoccupazione, miseria, abusi della polizia e delle istituzioni – condusse alla rivoluzione dei gelsomini, la cacciata del dittatore Ben Alì e l’accensione di identiche sollevazioni nei paesi vicini, dal Marocco all’Egitto, dal Bahrein allo Yemen.

Oggi di quei giorni resta la capacità di mobilitarsi ma anche la disillusione di chi ha fatto una rivoluzione e non ha visto migliorare le condizioni di vita. Lo si è visto a maggio: alle amministrative si sono presentati solo il 34% degli aventi diritto, con il caso eclatante di una città, Chnenni-Ennahal, dove l’astensione ha raggiunto il 97% per protesta contro il governo centrale.

La Tunisia resta un paese povero, a due velocità, che investe e arricchisce la costa e le città del turismo europeo ma dimentica le aree rurali e più marginalizzate. Un paese dove ogni sei mesi viene rinnovato lo stato di emergenza per la minaccia islamista radicale e le manifestazioni non sono libere come dice la carta.

Dove il governo – coalizione formata dai laici di Nidaa Tounes e gli islamisti moderati di Ennahda – ha accettato i prestiti condizionati dell’Fmi in cambio di una dura austerità (identica politica applicata in Egitto, neoliberismo e contenimento delle spese che pesa sulle classi basse).

I tunisini hanno reagito subito: dall’inizio dell’anno, per mesi, hanno protestato contro riforme che hanno un impatto serio su un sistema economico già fragile. Una finanziaria «lacrime e sangue» che prevede un aumento fino al 300% del prezzo di beni di prima necessità, sotto forma di imposte sul consumo.

Scioperi di operai, insegnanti, professionisti, manifestazioni di piazza, sit in degli studenti sono rimasti pressoché inascoltati mentre centinaia di manifestanti venivano arrestati. Al centro la privatizzazione dell’istruzione, i mancati investimenti nelle zone povere del paese, la condizione della classe operaia e la disoccupazione giovanile, al 35%, ma che si impenna nelle aree più marginalizzate da cui ha attinto a piene mani la propaganda dei gruppi islamisti radicali: la Tunisia è il paese con il più alto numero di foreign fighters reclutati da al Qaeda e Isis, nella vicina Libia, in Siria, in Iraq.

E il paese di terribili attentati terroristici, al Museo del Bardo nel marzo 2015 e al resort di Sousse pochi mesi dopo, ma anche di omicidi eccellenti, come quello di Chokri Belaid, leader della coalizione di sinistra Fronte popolare, ucciso davanti casa nel febbraio 2013.

Lo stato di emergenza permanente è giustificato con la minaccia islamista ma è usato – denunciano opposizioni e ong – per limitare la libertà di movimento, per arresti arbitrari, confisca di passaporti, abusi. Lo strumento è l’ordine S17 con cui il ministero dell’Interno mantiene confinati nei distretti di residenza centinaia di persone, per lo più giovani. E chi finisce in carcere, denuncia Amnesty, subisce spesso torture.