Ciò che ci fa sentire veramente a disagio non è tanto il comportamento dei nostri avversari, quanto quello dei nostri amici, che non muovono un dito per far mutare la situazione. Mentre si poteva essere preparati per affrontare una difficile fase di opposizione per cercare di ricostruire un diverso orizzonte culturale e politico, ciò che effettivamente ha finito per spiazzarci è l’assoluta incapacità di coloro che ci sono più vicini di contrapporre un proprio giudizio a quello dei governanti, folgorati dal successo dei nuovi vincitori. Né può rappresentare un’attenuante la dimensione della sconfitta.

Certo che è dalla “disfatta” che bisogna partire, ma per rendere esplicita l’urgenza di riesaminare da capo le cose, senza poter invece continuare a limitare i danni, poiché essi si sono già tutti prodotti. L’unica giustificazione possibile, in caso, è che in tempi di crisi la mente dell’uomo vacilla, ma proprio per questo diventa necessario fermarsi per riflettere. La ricerca di capri espiatori ovvero le tecniche di riduzione del danno non possono che prolungare l’agonia. Non è più il tempo dell’opportunismo per la sopravvivenza, è arrivato semmai il momento del coraggio, alla ricerca delle “ragioni profonde” – quelle meno visibili, ma veramente fondamentali – che hanno prodotto le miserie del presente. Certo, sarebbe più comodo dare la colpa al cinico destino, alla malvagità degli altri. Ci si potrebbe rifugiare nella neutralità dell’analisi che si limita a rilevare gli effetti e mai le cause. Ma a che servirebbe? Limitarsi a constatare – per poi maledire – i populismi, le loro disinvolte politiche sociali, la feroce carica antisistema che viene così fomentata e che si traduce in una complessiva delegittimazione delle istituzioni democratiche non riuscirà ad arrestare il declino. Denunciare ed opporsi al nuovo non serve a granché, perché sono i nostri valori ad essere stati traditi e poi abbandonati, non quelli degli altri.

Le cause della crisi sono in noi. I problemi di oggi sono causati dallo stallo in cui versano le istituzioni costruite per dare sostanza alla democrazia costituzionale.

E allora, c’è solo un modo per non tradire le nostre origini e rimanere fedeli ai nostri ideali di solidarietà e fratellanza, di libertà ed eguaglianza, oggi stravolti e raggirati: dobbiamo comprendere le ragioni dalla spaventosa distanza che ci divide ormai dai nostri inizi, chiederci quali siano i motivi che hanno portato gran parte dell’umanità a rivoltarsi contro le istituzioni democratiche. Con coraggio dobbiamo domandarci perché oggi non si voglia più essere liberi ed eguali, scopriremmo così che non basta semplicemente affermare questi valori, ma ormai è necessario risignificarli. Entro un quadro storico mutato e refrattario ad essi.

Potremmo scoprire così che le attuali fragilità della democrazia sono il frutto più delle nostre debolezze che della forza degli altri. Sul piano sociale, solo per fare un esempio, non è il rifiuto del diritto alla salute che ha portato alla privatizzazione della sanità, bensì il collasso del sistema pubblico non più in grado di “tutelare la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” (così l’articolo 32 cost.). O ancora: nessuno in via di principio nega il diritto allo studio e la libertà della ricerca scientifica (articoli 33 e 34 cost.), di fatto però tanto l’uno quanto l’altra hanno dato pessima prova di sé, con una progressiva e apparentemente inarrestabile dequalificazione tanto dell’istruzione pubblica, quanto delle istituzioni universitarie. Potrei proseguire constatando l’enorme distanza che passa tra molti altri valori, tutti enunciati dalla costituzione, e la realtà in cui siamo precipitati. All’origine della sconfitta non c’è dunque l’improvviso emergere di un mondo che proditoriamente ha imposto i suoi disvalori, bensì al contrario la perdita progressiva del nostro orizzonte. Gli altri, letteralmente “nuovi barbari”, sono apparsi al tramonto e si sono potuti insediare nelle nostre città oramai desertificate. Una vittoria facile, ma che “noi” non abbiamo neppure provato a contrastare (semmai a volte vi abbiamo contribuito). È ora di tornare con i piedi per terra e cercare di riprendere un nuovo cammino, se si vogliono riconquistare le città perdute.

Per chi crede ancora nella democrazia costituzionale come orizzonte del possibile cambiamento è dal suo appannamento che deve ripartire. È lì l’origine della crisi, lì sono depositati tutti gli interrogativi irrisolti dalla storia recente. Deve essere anche chiarito che andare alla ricerca delle ragioni di fondo per comprendere quanto sta accadendo non vuol dire solo “tornare alla costituzione”, ma soprattutto, con maggiore radicalità, provare a realizzare la “rivoluzione promessa” dalla costituzione. Dovremmo poi immediatamente aggiungere con onestà che la soluzione non è a portata di mano. Perché una rivoluzione costituzionale (nel senso appena richiamato) comporta la necessità di tornare a riflettere sui fondamenti della nostra civiltà, abbandonando in tal modo il chiacchiericcio dominante, ma non dando nulla per scontato, neppure le nostre poche residue certezze. Un percorso accidentato che ci porterebbe a “pensare” di nuovo al senso da dare ai diritti fondamentali che si sono via via smaterializzati. Una lunga marcia che potrebbe non avere un riscontro immediato, ma che darebbe una prospettiva a chi oggi non ne vede alcuna. E poi, finalmente, ci permetterebbe di guardare oltre le miserie del presente, lasciando apertamente la responsabilità del governo del regresso alla classe dirigente attualmente egemone e da tempo al potere, candidandoci a costruire un diverso e più degno modello di società civile. In nessun caso vinceremo le prossime elezioni, ma almeno avremmo dato una speranza al futuro.