«Fatal journeys», viaggi di morte sono quelli che costano la vita a migranti che fuggono alla guerra per cercare un approdo più sicuro. «Fatal journeys» è il titolo del rapporto dell’organizzazione mondiale delle migrazioni (Oim), che registra 40.000 disperati morti durante la fuga dal proprio paese dal 2000 e 20.000 di questi nel Mediterraneo. Le cifre potrebbero essere anche superiori, ma spesso chi sparisce in mare non ha nemmeno chi possa rivendicare il suo corpo. Corpi straziati, di uomini, donne e bambini, senza nome.

Famiglie che invece cercano i loro cari senza più trovarli.

Tragedie, naufragi, morti segnano la vita di molti popoli che cercano la libertà, la dignità, la fine della sofferenza, un pezzo di pane.
Quanti cadaveri dovranno ancora marcire in fondo al mare, sbattuti dalle onde in tempesta, prima che si ponga fine a questa tragedia? Quante carrette del mare fatiscenti dovremo ancora vedere accatastate nell’isola di Lampedusa prima che i responsabili delle guerre che sconvolgono il Medio oriente si assumano le loro responsabilità? L’intervento della Nato in Libia, i finanziamenti all’opposizione – anche jihadista siriana – sono tra le cause principali delle tragedie vissute da molti profughi che cercano salvezza ogni giorno sulle nostre coste.
Eppure il Mediterraneo è il mare nostrum, fonte di risorse, di scambi e di cultura. Non solo per i paesi del sud ma per tutta l’Europa.
La sorte dei migranti non si può lasciare alla fatalità, la loro fine ingrata non è ineluttabile. Basterebbe assumere il problema all’origine: perché non organizzare la partenza dei profughi dalle zone di guerra o da paesi bistrattati da dittature prevedendo un loro percorso verso l’Europa, verso tutti i paesi dell’Unione, in base alle migliori condizioni di integrazione? In questo modo si potrebbero sottrarre questi disperati alle grinfie degli scafisti. Costituendo dei corridoi umanitari si potrebbero salvare molte vite umane, evitare conflitti tra poveri, sottrarre le vittime della guerra agli speculatori, che non sono solo gli scafisti, loro sono la manodopera, ma dietro di loro vi sono personaggi ancora più loschi. Senza la guerra, senza le milizie armate, senza le dittature finirebbe questo traffico di essere umani, traffici di donne, di organi da trapianti. Una tragedia senza fine.

Sono anche questi i temi al centro di Sabir, il festival che si apre oggi a Lampedusa per un confronto tra le varie culture del Mediterraneo. L’iniziativa promossa dall’Arci, dal Comitato 3 ottobre e dal Comune di Lampedusa, con il patrocinio della presidenza dei ministri e della Rai, coincide con il primo anniversario del naufragio del 3 ottobre 2013 che ha causato la morte di almeno 366 profughi. Un’occasione per non dimenticare, per impedire che ancora una volta il silenzio copra le colpe e le omissioni di chi ha il dovere di salvare degli esseri umani più sfortunati di noi. Come hanno sempre fatto gli abitanti di Lampedusa, quelli che si sentono i testimoni di una piccola isola collocata nel Mar d’Africa.