«Chi ha ucciso il senso dell’umorismo?»: ecco la domanda che finora non aveva trovato risposta, ecco sciolto l’arcano di un delitto finora irrisolto. Decollato di ogni seppur pallida ombra di perizia storica, vedovo inoltre di un qualsivoglia rapporto (anche minimo, anche meschino) con la filologia, Pierluigi Battista si è ancora una volta avventurato nel regno delle sue ossessioni, dei suoi incubi, dei suoi fantasmi. Lo ha fatto, in un ulteriore viaggio infero ed intimo che al dunque appare triste, «solitario y final», sull’inserto domenicale del quotidiano di via Solferino, con un lunghissimo articolo che andrebbe conservato per testimoniare un giorno, e se il pianeta avrà un futuro, in che mani siamo stati. Lo ha fatto tuttavia per noi e per coloro i quali ignoravano il responsabile del crimine che ha chiuso la bocca alla sulfurea tradizione dei Marcello Marchesi, dei Vittorio Metz, degli Achille Campanile, dei Vincenzo Cardarelli, degli Ercole Patti e persino degli Ennio Flaiano.

La soluzione era semplice e un po’ ci si vergogna di non averci pensato prima. Rivela Battista, apparecchiando la tavola di una nuova succosa vivanda: dopo il Sessantotto, caduta la maschera libertaria e antiautoritaria, «cala plumbeo sulla cultura italiana il grande gelo del dogmatismo, della disciplina militare, dell’ideologismo fanatico». Ecco qui, quel maledetto anno ne ha combinata un’altra delle sue e non ce n’eravamo resi conto. L’articolista per adesso non osa confessarlo, ma forse a uccidere fisicamente Flaiano, essendo il grande scrittore scomparso nel 1972, potrebbe essere stato un bacillo maleolente dell’infame evento. Cardarelli, per parte sua, si era salvato, spegnendosi da solo nel 1959. L’impunito Metz, che prima e durante e dopo il Sessantotto collaborava al Candido diretto dal fascista Giorgio Pisanò, è morto nel 1984. Infine Patti (dagli amici soprannominato la Salma proprio per l’assenza di spirito), Campanile e Marchesi lasciarono questa terra rispettivamente nel 1976, nel 1977 e nel 1978, dunque la faccenda potrebbe riservare brutte sorprese.

E sarà inutile ricordare a Battista che Flaiano pubblicò in vita soltanto cinque titoli, mentre la sua fortuna critica ed editoriale (con le opere complete stampate da Bompiani nella collana dedicata ai classici, poi passate ad Adelphi a siglarne la definitiva consacrazione) si data in anni assai recenti e lontanissimi dal Sessantotto. E sarà ugualmente tempo sprecato mettere in evidenza la medesima traiettoria per quanto riguarda Campanile, sottovalutato e ignorato finché visse.
Battista stesso ricorda che due libri di Marchesi sono stati riediti di recente con l’antica introduzione del compianto Oreste del Buono (tre l’altro, un comunista doc). No, l’assenza di acribia del nostro Sheridan non sentirebbe ragioni, come quando denunciò la viltà degli intellettuali di sinistra per il trattamento riservato a Giovannino Guareschi, mai assunto nel cerchio riservato ai grandi scrittori italiani e fu inutile rammentargli che il creatore di Peppone e di don Camillo aveva venduto e continuava a vendere (a differenza di Gadda o di Landolfi) centinaia di migliaia o forse milioni di copie e che, ad esempio in Inghilterra nessuno mai si sarebbe permesso di usare un simile strampalato argomento a proposito di Wodehouse.
Ma Battista sente solo le voci di dentro e il rumore di quello spettro che secondo lui si aggira ancora per l’Italia a combinare guai. Diamogli ragione: il Sessantotto forse ha ucciso l’umorismo, ma certo non il senso del ridicolo.