Come prima, più di prima, è la canzone che nel 1957, decreta l’esordio del cantante “urlatore” Tony Dallara. E alcune delle sue strofe recitano: «Tutto il mondo sei per me, e a nessuno voglio bene come a te». Le parole della canzone si riferiscono probabilmente ad un amore ritrovato, ma, oggi, possiamo ritenerle indirizzate al dio profitto.

Perché sulla tragedia della funivia del Mottarone sembra ormai accertato che una delle cause sia stata la deliberata intenzione dei manutentori di sbloccare i freni di emergenza, per «evitare disservizi e blocchi della funivia», che avrebbero (a causa della rottura della fune di traino, che resta ancora sconosciuta) impedito che la cabina scivolasse all’indietro causando la morte di 14 persone.

E perché? Semplice, per accelerarne la riapertura. Ma non era questa del Covid 19 l’occasione per ripensare il nostro modello di sviluppo e di produzione caratterizzato dalla voracità del profitto e della crescita insensata?

All’inizio della pandemia alcuni ci avevano sperato visto che la voce che circolava era «mai più come prima». Ma oggi quella auspicata speranza è svanita letteralmente, anzi il «liberi tutti» ha accentuato più di prima la tendenza alla costruzione di opere (inutili), alla cementificazione, alla tecnologizzazione, alla modernizzazione che poi significa sblocco delle procedure di sicurezza (impatto ambientale, massimo ribasso dei prezzi rispetto alle aste pubbliche) che dovrebbero accompagnare ogni opera. Accelerare, velocizzare, sveltire ogni aspetto della vita in base al principio della santa competizione. E che questo comporti qualche “danno collaterale” è un prezzo che bisogna pur pagare.

Basta guardare cosa intende fare il Ministero della transizione ecologica: si continua a trivellare gas davanti alle coste dell’adriatico, si affida ai piani di trasformazione (green?) dell’Eni il progetto di catturare la CO2 prodotta nella sua area industriale di Ravenna e pomparla, sotterrandola nei suoi giacimenti dell’Adriatico (la tecnologia Carbon Capture and Sequestration), pur di continuare a utilizzare i fossili; si ritorna a parlare di nucleare sotto forma di piccoli reattori, magari costruiti nel proprio giardino di casa (al posto del barbecue) per risolvere i problemi energetici. Si chiama green washing, ovvero una lavata di verde per nascondere il marketing, un ambientalismo liberista, produttivistico, aziendalistico e di mercato, questa per ora la transizione ecologica che ci propone il ministro Cingolani.

Nulla dunque è cambiato e il «mai più come prima» s’intende, «più veloci di prima» per ritornare a massacrare le nostre città assaltate dai turisti mordi e fuggi, dalla cementificazione, dalla civiltà dell’automobile, per non perdere punti di Pil. Questo il senso della tragedia del Mottarone, così come per «velocizzare» il lavoro di 200 braccianti agricoli di nazionalità indiana un medico di Sabaudia somministrava ai lavoratori un farmaco stupefacente.

Ma questa non è l’Italia uscita dal Dopoguerra dove pure a fronte del disastro c’era la speranza di costruire, sulle macerie, un modello di sviluppo e di convivenza nel quale ognuno poteva apportare il proprio contributo.

La pandemia è stata originata da cause ben note, come i disboscamenti, gli allevamenti intensivi di animali, la cementificazione e il consumo di suolo che alla fine hanno consentito lo spillover, ovvero il salto di specie di un virus dagli animali all’uomo. E probabilmente ce ne saranno ancora, anche se gli Stati uniti (e magari buona parte dell’opinione pubblica manipolata dai media) sono convinti che esso è uscito dai laboratori di Wuhan.

Il pensiero riduzionista è sempre vincente e le idee ultrasemplificate prevalgono sempre su quelle complesse. Meglio pensare che questa pandemia è stata scatenata da qualche scienziato pazzo cinese che mettere in dubbio il nostro modello di vita e di produzione che non è mai negoziabile.