La riforma fiscale non sarà la riforma strutturale e organica di cui il presidente Draghi aveva parlato nel suo discorso d’insediamento, ma un compromesso al ribasso. Un atto dovuto per accedere alla seconda tranche dei fondi del Recovery plan. Da questa maggioranza di governo tanto larga quanto eterogenea, non ci si poteva aspettare di più.

Alcune questioni spinose e divisive sono state accantonate e rinviate. Non si parla di imposta patrimoniale, di riforma del catasto, di imposte sulle successioni e donazioni. Viene dunque disattesa una delle raccomandazioni della Commissione europea di spostare il peso della pressione fiscale dal lavoro alla rendita. Eppure tra prelievo sul reddito da lavoro e prelievo sulla rendita c’è in Italia un rapporto di 11 a 1.

L’UNICA PREOCCUPAZIONE del legislatore sembra essere la conservazione dell’esistente, con qualche ritocco. La ratio è far pagare meno tasse a chi ha di più. Sono confermati i regimi sostitutivi differenziati, le agevolazioni e le esenzioni che hanno stravolto la riforma fiscale dei primi anni Settanta. Sui redditi da capitale e sulle rendite finanziarie si propone un minore prelievo, allineandolo a quello della prima aliquota Irpef (23 per cento). Un risparmio fiscale non da poco. Non giustificato. Non si sa per quale motivo i guadagni di tipo finanziario, oggi tassati al 26 per cento, debbano essere equiparati al reddito dei contribuenti meno abbienti.

Manca uno sforzo innovativo, dunque. Si rinuncia a fare dell’Irpef una tassa onnicomprensiva (comprehensive income tax) perché il cumulo dei redditi penalizzerebbe le categorie con i patrimoni più consistenti. I criteri di progressività sono in pratica disattesi. Non si recupera la base imponibile erosa da continue e scoordinate misure legislative in questi decenni. L’intervento di maggior rilievo riguarda il ceto medio, con la riduzione dell’aliquota, oggi al 38 per cento, per i redditi tra 28 e 55 mila euro. Anche in questo caso, però, lo sconto fiscale per i redditi medi si estende ai contribuenti degli scaglioni più alti (sopra i 55 mila euro e sopra i 75 mila).

LA DIMINUZIONE del prelievo Irpef sui ceti medio-alti, però, non è compensata, come ci si sarebbe aspettati, nemmeno da una rimodulazione delle aliquote Iva. Nessun aggravio per i beni di lusso. Si propone soltanto il ribasso dell’aliquota ordinaria. Una misura che, per il carattere regressivo delle imposte sui consumi, favorisce ancora una volta i più ricchi. E’ un impianto che si basa sull’assunto che il calo della pressione fiscale sia la via maestra della crescita economica. Mano a mano che si esce dall’emergenza pandemica, durante la quale sembravano tutti keynesiani, ritornano a farsi sentire, numerosi e più agguerriti che mai, i liberisti che chiedono di «affamare» lo Stato.

Se una cosa risulta certa, alla luce dell’esperienza, è che la curva dell’ineguaglianza non si inverte in virtù delle forze del mercato. Questi due anni terribili hanno mostrato quanto sia fondamentale il ruolo dello Stato e quanto poco affidabile la «mano invisibile» del mercato. Se non si ripristina la progressività del sistema fiscale, chi garantirà la maggiore spesa sociale per la sanità, la scuola, i trasporti pubblici? Chi pagherà il debito pubblico cresciuto per contrastare la recessione e per dare sussidi alle categorie e ai settori più colpiti? Le leggi di bilancio dei prossimi anni saranno, infatti, condizionate dalle risorse che il sistema fiscale riuscirà a raccogliere.

IN UN PAESE in cui la diserzione fiscale è così alta, è del tutto illusorio pensare che si possa recuperare gettito abbassando le aliquote. Tanto più che non cambia nulla per quelle categorie e quei settori che sfuggono al criterio della progressività e beneficiano di imposte di favore. Non è vero neanche che «quando la marea sale solleva tutte le barche». La crescita non è la panacea di tutti i mali. Spesso crea disparità sociali e sacche di povertà.

In realtà, dietro lo schermo ideologico della crescita e dell’efficienza, le aziende continuano a massimizzare i profitti, ad accaparrare incentivi e agevolazioni pubbliche, a pagare meno tasse, a remunerare di meno i lavoratori, a licenziare. Il capitalismo «mordi e fuggi», figlio del laissez faire, può continuare a prosperare. I manager, i rentier, gli speculatori finanziari, che conoscono bene i trucchi per pagare meno tasse o per non pagarle affatto, ringraziano.

LA RIFORMA CHE SI preannuncia, infine, non guarda allo sviluppo sostenibile. La transizione ecologica, fulcro del Pnrr, sul piano fiscale è declinata blandamente. Si punta alla graduale riduzione dei sussidi alle imprese ambientalmente dannosi (Sad), che assorbono annualmente oltre dieci miliardi, ma si propone al tempo stesso di attivare meccanismi di compensazione e premialità. Anche il principio «chi inquina paga» viene sacrificato sull’altare della riduzione della pressione fiscale complessiva. Ci vorrebbe il coraggio di andare controcorrente. Per la sinistra sindacale e politica c’è tanta carne al fuoco e ci sarebbero tante battaglie da combattere.