Nata dal latino medievale il termine «modernità» è parola chiave degli ultimi due secoli di storia, il metro fondamentale di giudizio sul mondo. Essa designa, anzitutto, la presa di distanza dal passato e dalla tradizione in nome di un orientamento generale e collettivo verso il cambiamento, la novità, la rottura. Il successo della modernità ha decretato anche la sua continua messa in discussione: post-modernismo è solo l’ultima espressione, inventata dalla modernissima cultura occidentale della fine degli anni Settanta, per designare la presa di distanza e il distacco crescente verso le «magnifiche sorti e progressive» annunciate dalla modernità. Anche perché la modernità aveva generato il totalitarismo e il fanatismo ideologico e, dunque, dirsi modernisti e libertari, progressisti e rispettosi delle differenze culturali, risultava un’intollerabile contraddizione, specie per una sinistra «moderna». In un famoso verso – ampiamente citato da un irriducibile anti-modernista come Heidegger – il poeta Friedrich Hölderlin scrive: «là dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva». Questa, in sintesi, la posizione espressa da Alain Touraine nel suo ultimo libro In difesa della modernità (Raffaello Cortina, pp. 306, euro 26).

TOURAINE è uno dei sociologi più influenti del mondo, tra gli ultimi esponenti di quella straordinaria generazione di intellettuali francesi del secondo dopoguerra che ha condizionato in modo determinante il nostro modo di fare e pensare le scienze sociali e umane. Difensore dell’Illuminismo e della tradizione repubblicana francese, come Habermas Touraine è stato sempre un assertore del valore della civiltà moderna poiché, senza modernità, non è possibile pensare e praticare alcuna emancipazione. Nel ribadire questa posizione declinandola nel contesto contemporaneo, il sociologo francese prende implicitamente le distanze da una parte della sua più recente produzione: dalla sua analisi scompare completamente il riferimento alla «fine della società». All’idea cioè che il declino delle istituzioni e la crisi dell’inclusività sociale siano i fenomeni che segnano, in ultima analisi, il mondo contemporaneo.

Il sociologo francese Alain Touraine

In difesa della modernità è invece un libro che non parla solo di macerie (come molto spesso ha fatto Bauman) ma di possibile e necessaria ricostruzione del patto sociale. Nel fare questo Touraine ripropone l’intero apparato teorico-concettuale che lo aveva reso famoso negli anni Settanta – quando fu tra i primi a parlare di società post-industriale e di nuovi movimenti sociali – e mette al centro un concetto anche questo ampiamente sviluppato nelle sue opere più recenti: quello di soggetto personale.

Per il sociologo francese la modernità è un Giano Bifronte: da una parte abbiamo la sua tendenza alla razionalizzazione, alla spersonalizzazione, all’ordine e alla sottomissione delle persone agli obiettivi della crescita e dello sviluppo. Da questo punto di vista la modernità è dominio. Quel dominio eretto a un unico metro di giudizio da parte della critica sociale e umanista degli ultimi duecento anni (compresi i postmodernisti). Dall’altra, però, la modernità è anche diritti, affrancamento dell’umanità dalla miseria, dai vincoli dell’oppressione e dall’ingiustizia. Entrambi questi aspetti rimandano al cuore stesso della modernità: essa è un modo di liberare, praticare e interpretare la creatività umana. Ricollegandosi al Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, attraverso la mediazione di Sartre, Touraine considera la creatività, esercitata attraverso il lavoro e il pensiero sul lavoro, la vera cifra dell’essere umano, creatore di se stesso e della propria storia.

IL CONTROLLO dei meccanismi sociali che presiedono al dispiegamento e all’organizzazione della creatività umana nonché alla distribuzione dei suoi frutti e delle possibilità stesse di esercitarla, sono insopprimibilmente conflittuali: «diretti» e «dirigenti» si fronteggiano a ogni livello. Da questo conflitto emerge il soggetto, vale a dire la possibilità che, potenzialmente la modernità mette a disposizione di tutte e tutti, di controllare ed esercitare la propria creatività, diventando persone libere e dignitose. In altre parole, di emanciparsi dall’oppressione e di costruire una vita degna di essere vissuta.
Mentre nella società industriale questa possibilità di soggettivazione si è incarnata in movimenti sociali come quello operaio ove l’emancipazione personale era concepita come inestricabilmente legata a quella di classe, cioè collettiva, nel nostro mondo globale l’emancipazione non può che fare appello ai diritti umani e alla dignità della persona contro meccanismi economici e politici che tendono a voler controllare totalmente il modo stesso in cui agiamo e pensiamo in quanto esseri umani.

TUTTI I MOVIMENTI sociali e le lotte maggiormente in grado di far fare un passo in avanti, culturale e politico-istituzionale, alla causa dell’emancipazione traggono forza da questo appello a diritti umani universali: si pensi al recentissimo caso della Sea Watch 3 e, in generale, al valore della questione dei rifugiati e dell’accoglienza in Europa.

La de-soggettivazione e i contro-movimenti sono oggi quelli che rivendicano, invece, un ritorno al comunitarismo e che sognano un mondo chiuso, protezionista, sovranista, irrispettoso delle istanze di libertà, uguaglianza e dignità dei contemporanei. Allora, qui sta secondo Touraine il valore dell’accettazione della modernità e della presa in carico del compito di dispiegare tutte le potenzialità positive del nostro mondo ormai «iper-moderno»: senza questo riferimento, senza riferimento alla stretta unione tra diritti e creatività, tra lavoro e libertà, in un’ottica a un tempo post-liberale e post-socialista, non è possibile immaginare alcuna reale emancipazione umana.