Quando nel dicembre del 1993 il premio Nobel della Pace andò congiuntamente a Frederik Willem de Klerk, allora presidente di un Sudafrica nazionalista che rappresentava il 13% della popolazione, e a Nelson Mandela, che avrebbe di lì a pochi mesi ricoperto la stessa carica per investitura popolare nella neonata democrazia, un altro premio Nobel sudafricano, Nadine Gordimer, ebbe a scrivere: «Lungi dall’assumere una condizione celestiale, la natura di Mandela è anzi totalmente e assolutamente umana, l’essenza di un essere umano nel pieno significato che questa espressione dovrebbe, potrebbe avere, ma di rado ha. Egli appartiene fino in fondo a una vita reale vissuta in un luogo e un tempo specifici e nel rapporto di questo luogo e questo tempo con il mondo. È all’epicentro della nostra epoca; della nostra in Sudafrica e della vostra, ovunque voi siate» (N. Gordimer, Vivere nella speranza e nella storia, trad. di Maria Luisa Cantarelli, Feltrinelli, 1999).

La rara, piena realizzazione dell’essenza dell’umanità nella persona di Mandela che Gordimer acutamente metteva a fuoco è quanto rende complicato disegnare il profilo di un uomo eccezionale ma ugualmente familiare su cui è ormai stato detto e scritto tutto. Sospeso tra mito e realtà, tra leggenda e storia nell’immaginario nazionale e internazionale, a partire da quella desueta sentenza giudiziaria che nel 1964 si espresse per «ergastolo più cinque anni» – come a volerlo controllare anche nell’aldilà – Nelson Rolihlahla Mandela, classe 1918, per molti solo «Madiba», ha attraversato una buona parte del secolo scorso rinchiuso in celle dalle quali, nonostante l’isolamento, che gli concedeva una lettera (censurata) e una visita ogni sei mesi, la sua fama non ha fatto che crescere ispirando tutti: politici, combattenti, artisti e gente comune ad ogni latitudine e longitudine. Sulla peculiare umanità della sua figura, ai tempi in cui era già divenuto l’uomo invisibile più famoso al mondo (di lui non circolavano che le foto precedenti l’arresto e il processo), si interrogava, celebrandolo, anche il più grande poeta africano: il nigeriano Wole Soyinka. Nei bei versi della poesia Your logic frightens me, Mandela (1988) dichiarava «La tua logica mi spaventa, Mandela, la tua logica mi umilia» e poneva sotto scrutinio la resistenza titanica del detenuto 466/64 alla fame, alle malattie indotte dal carcere, alla solitudine. All’epoca del poema di Soyinka, Madiba aveva già trascorso diciotto anni in una cella di due metri e mezzo quadrati a Robben Island, oggi un visitatissimo e suggestivo museo, in compagnia di gechi, lucertole, topi, pipistrelli e falene – canta Soyinka – e altri sei nel carcere di Pollsmoor a Cape Town dove, per le pressioni internazionali, alcune restrizioni avevano ceduto il passo a piccole concessioni. «La tua logica mi spaventa, con quanta freddezza disdegni i giochi di prestigio!» scriveva allora Soyinka, raffigurando in Mandela una specie di shakespeariano Prospero che rinuncia alla magia proprio perché crede, umanamente, non ingenuamente, in uno «splendido nuovo mondo». Sospetta e teme, il poeta, che la pazienza di Mandela diventi, costretta dalle circostanze impietose, disumana.

Eppure ha capito, Soyinka, in cosa risiede la grandezza di Mandela quando chiede a quel lontano interlocutore che non può sentirlo: «Dimmi, Mandela, quel secondino, è lui il tuo prigioniero?». D’altronde, sarà Mandela stesso a tornare nella sua autobiografia sull’importanza formativa degli anni di carcere che gli fanno accogliere a 71 anni l’agognata libertà – Mandela fu l’ultimo dei prigionieri politici ad essere rilasciato – come l’inizio di una nuova vita. È una nuova vita, si sa, densa di eventi importanti e spettacolari, masoprattutto fondata – come lo furono gli anni di carcerazione – sull’ubuntu sudafricano, una sorta di «io sono perché tu sei» che impone a tutti umanità, poiché la disumanità di uno disumanizza anche l’altro: «È stato in quei lunghi anni di solitudine che la sete di libertà per la mia gente è diventata sete di libertà per tutto il popolo, bianco o nero che sia. Sapevo che l’oppressore era schiavo quanto l’oppresso, perché chi priva gli altri della libertà è prigioniero dell’odio, è chiuso dentro le sbarre del pregiudizio e della ristrettezza mentale. L’oppressore e l’oppresso sono entrambi derubati della loro umanità» (N. Mandela, Lungo cammino verso la libertà, trad. di E. Dornetti, A. Bottini, M. Papi, Feltrinelli, 1995). Whatwill be left of you, Mandela? recita il verso finale della poesia di Soyinka esprimendo la preoccupazione, oggi condivisa, davanti all’eclissarsi di un’icona sulle cui vene «temo che abbiamo attaccato grasse sanguisughe».