Comincia oggi la pubblicazione di una serie di pagine dedicate alle «città scomparse», che accompagneranno i lettori fino al 27 agosto. Luoghi che sono stati vissuti o solo sognati, rovine del paesaggio o tracce dell’immaginario. Si andrà alla scoperta di Xanadu, la capitale mongola, ma anche di città baleniere del ’600, Ninive, Cartagine, Hampi in India, le ghost cities Usa e le città russe di N, l’isola di Deshima, l’Irlanda leggendaria, la Ciudad
de los Césares, Harlan, Ordos e la memoria di Oradour sur Glane.
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L’impero mongolo ha esercitato un fascino potente sull’immaginario degli europei. Già i contemporanei si chiedevano chi fossero i cavalieri misteriosi e bellicosi che nella prima metà del Duecento si erano affacciati alle porte d’Europa, annichilendo ogni tentativo di difesa; in tanti avevano pensato a Gog e Magog, i popoli mostruosi citati dalla Bibbia. Ma già pochi anni dopo, i primi missionari, diplomatici e mercanti li avevano visitati per comprendere se vi fossero possibilità di conversione, di rapporti politici o di affari; e i loro racconti presero a circolare in Europa. Nei secoli successivi, quando l’unità politico-militare dei mongoli era soltanto un ricordo, lentamente maturò un diverso tipo di fascinazione, costola dell’orientalismo generalmente rivolto al mondo arabo-persiano, che riguardava invece l’estremo Oriente.
PER I MONGOLI, a dare il via fu il poeta inglese Samuel Taylor Coleridge, che fra le sue Ballate liriche (1798) ne inserì una intitolata Kubla Khan nella quale raccontava della mitica residenza estiva dei khan, Xanadu, quella di cui aveva narrato Marco Polo nel Milione, ma che al tempo di Coleridge non esisteva più. Tuttavia, sulla scorta dell’immaginazione del poeta, l’avrebbero cercata avventurieri e archeologi dell’Ottocento e del Novecento.
Xanadu e Pechino, però, erano state le capitali del dominio mongolo all’apice della sua forza. La loro era stata un’ascesa fulminea. Nel corso del XII secolo i mongoli, pastori nomadi che abitavano l’odierna Mongolia orientale, avevano iniziato a unirsi. Gli arabi li chiamavano tatar: termine da cui i latini derivarono la parola «tartari», che ricordava l’inferno pagano, il Tartaro.
DOPO AVER UNIFICATO le genti mongole, nel 1211 Genghiz Khan avviò la campagna per la conquista della Cina; alla sua morte, nel 1227, l’impero andava dalla Siberia al Kashmir e al Tibet, dal Mar Caspio al Mar del Giappone. Mentre il nuovo Gran Khan Ögödei completava l’assoggettamento della Cina settentrionale e della Persia, il nipote di Gengis Khan, Batu, si gettava sull’Europa orientale. Ma sotto il nuovo khan Güyük i mongoli mutarono rotta e politica: non puntarono più sull’Europa e sul Mediterraneo, bensì sulla Cina dove, tuttavia, i Song opponevano resistenza. Möngke, quarto Gran Khan dell’impero mongolo, morì nel 1259 durante l’assedio della città di Chongqing. Suo fratello minore, Kublai, fu eletto nuovo khan nel 1260.
Nel 1279 l’intera Cina era sotto il suo controllo e nasceva la dinastia degli Yuan. Nei decenni iniziali dell’espansione, la capitale del nascente impero mongolo era Karakorum, nell’odierna Mongolia centrale. I primi europei a compiere il viaggio verso l’estremo Oriente furono missionari-diplomatici come i francescani Giovanni di Pian del Carpine e Guglielmo di Rubruck.
QUEST’ULTIMO la visitò nel 1253, lasciandone una descrizione non poi così positiva, ma allo stesso tempo in grado di affascinare i suoi lettori: comincia infatti comparandola al villaggio di Saint Denis, che dice essere più grande, mentre il monastero di Saint Denis sarebbe stato più ampio del palazzo del khan. In effetti, si trattava di una città nuova, fondata intorno al 1220 a partire da un campo di yurte, e appartenente a un popolo di nomadi. Tuttavia, i mongoli erano stati rapidi nel fare tesoro delle esperienze di urbanesimo delle genti con cui venivano in contatto: musulmani e cinesi in testa, che come testimonia lo stesso Guglielmo erano numerosi in città. Racconta infatti che tanto i «saraceni», come li chiama, quanto i cinesi, avevano ciascuno il proprio quartiere, dove si occupavano di commerci e artigianato. Secondo la tradizione mongola, che vedeva di buon occhio la compresenza di fedi diverse, ogni gruppo aveva diritto ai suoi luoghi di culto. Vi erano dodici templi di «idolatri», ossia presumibilmente di buddisti, due moschee e una chiesa cristiana. Oltre le mura, chiuse da quattro porte, vi erano mercati dove si vendeva di tutto: dalle granaglie agli animali.

LA DESCRIZIONE più lunga, tuttavia, è riservata al palazzo dei khan, prossimo alle mura e a sua volta cinto da alte fortificazioni. Qui, continua il frate, si svolgono le feste e le cerimonie principali; qui sorge un’opera straordinaria: un enorme albero d’argento, con alle radici quattro leoni pure di metallo pregiato, ognuno dotato di un condotto interno che porta alla bocca latte di giumenta, la bevanda prediletta dai mongoli; altri quattro condotti conducono alla cima dell’albero, dove sono avvinghiati dei serpenti, e da questi zampillano vino, acquavite di riso, kumis (latte di giumenta fermentato), idromele.
L’albero era opera dello scultore e orafo parigino Guillaume Boucher, rapito dai mongoli durante le loro incursioni in Europa orientale insieme alla sua sposa ungherese. Il frate aggiunge che il palazzo assomiglia a una chiesa con due navate e pilastri centrali, da dove partono due scalinate che conducono al trono sul quale siede, visibile a chiunque entri, il khan. È probabile che, a parte il gusto del meraviglioso che aveva dettato l’opera, l’albero avesse anche un significato sacrale quale axis mundi, unione fra il tengri (il cielo, ciò che di più sacro avevano i mongoli) e la terra.
Di tutto questo, oggi non esiste più niente. La disgregazione dell’impero mongolo cominciò già nella prima metà del Trecento, ma il colpo di grazia fu dato dalla caduta degli Yuan, in seguito a una rivolta cinese che portò sul trono la dinastia dei Ming. Nel 1388 truppe cinesi distrussero la città, le cui rovine rimasero abitate per alcuni decenni, ma finirono poi inglobate nel monastero di Erdene Zuu.
La riscoperta archeologica è stata graduale: già nell’Ottocento erano state avviate alcune prospezioni, ma è soltanto dal secolo scorso che le spedizioni, soprattutto russe, hanno riportato alla luce reperti e fondamenta. A poche decine di chilometri si possono ammirare anche quelle di un’altra città delle steppe nomadiche: Kharbalgas, ch’era stata un’altra capitale di un impero di nomadi, gli uyguri, tra VIII e IX secolo. Dinanzi a queste antiche città perdute, Xanadu è più l’apice che un modello. È qui che avvenne il primo incontro fra Kublai e Marco Polo, che Marco chiama Ciandu (per Shangdu). Poche sono le parole dedicate al palazzo vero e proprio: forse negli anni che seguirono Marco ne vide di più belli nel sud della Cina. Maggior interesse suscita l’immenso parco che serviva da riserva di caccia per Kublai.
CIÒ CHE RESTA dell’antica città si trova nell’attuale Mongolia interna, all’incirca 350 km a nord di Pechino. Fu fatta edificare da un architetto cinese, Liu Bingzhong, tra 1252 e 1256, secondo un modello architettonico cinese. Kublai la utilizzava come residenza estiva; il suo palazzo era più piccolo, circa la metà o forse meno, della Città proibita, ma la cerchia di mura poteva arrivare a ospitare fino al centomila persone. L’ultimo khan, Toghun Temür, la dovette abbandonare dinanzi alle rivolte che affliggevano la regione e nel 1369 fu occupata dall’esercito dei Ming, che la diedero alle fiamme in quanto simbolo del potere mongolo. In anni recenti gli scavi hanno permesso di comprenderne la struttura e di riportare qualcosa alla luce; ma oltre alle fiamme, alcune sue parti sono finite come materiale di riuso nell’edificazione della vicina Dolon Nor e anche i furti hanno ormai minato completamente la possibilità di farla tornare al suo splendore.
Pur perdute nel loro aspetto originario, Kharbalgas, Karakorum e Shangdu/Xanadu sono il simbolo di un periodo di estrema vitalità delle civiltà nomadi dell’Asia centrale, nonché un capitolo della storia culturale della fascinazione europea per quel mondo.
SCHEDA
In Xanadu si fece costruire Kubla Khan un duomo di delizie: dove Alfeo, sacro fiume, verso un mare, senza sole giù correva. Per caverne che l’uomo non può misurare. Per cinque e cinque miglia di fertile suono. Lo circondò con torri e mura; c’erano bei giardini, ruscelli sinuosi, alberi da incenso in fioritura; c’erano boschi antichi come le colline. E assolate macchie di verzura. (…) Per cinque miglia serpeggiando fluiva il fiume sacro fra boschi e piccole valli, Giungeva a caverne che l’uomo non può misurare, poi sfociava in tumulto a un oceano senza vita: e nel tumulto Kubla udì le voci remote degli antenati che predicavano guerra!
(da «Kubla Khan» di Samuel Taylor Coleridge)