«Le Scienze» è l’edizione italiana della storica rivista «Scientific American» ed è stata la prima rivista di divulgazione scientifica in Italia. Il numero attualmente in edicola è quello del cinquantesimo compleanno. «Le Scienze» nacque proprio nel 1968 per iniziativa di Felice Ippolito. L’ex-presidente del Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare era appena uscito dal carcere dopo la grazia. L’inchiesta sulla gestione dei fondi che lo aveva portato in galera fu contestata da gran parte degli scienziati italiani. Molti la interpretarono come una manovra americana per impedire che in Italia si sviluppasse una comunità scientifica forte e indipendente. Per evitare nuovi «casi Ippolito», occorreva una rivista che difendesse e diffondesse la cultura scientifica in Italia e pubblicasse articoli di approfondimento scritti dagli stessi protagonisti della ricerca. Ippolito diresse la rivista fino al 1996, quando gli successe Enrico Bellone. Dal 2008 «Le Scienze» è diretta da Marco Cattaneo.

Direttore, com’è cambiata «Le Scienze» in questo mezzo secolo?
Rispetto ai primi numeri non ci sono più gli articoli lunghissimi scritti da addetti ai lavori e che leggerebbero solo altri addetti ai lavori. D’altronde c’è meno tempo e più fretta di prima anche nei lettori. Ma non è stato un cambiamento improvviso. Quando sono arrivato a «Le Scienze», nel 1991, il processo era già iniziato. Poi sono state aggiunte rubriche, notizie date in maniera più rapida, più colore e forse si è guadagnato in chiarezza della divulgazione.

È cambiato anche il lavoro del giornalista scientifico…
La figura chiave è stata Sir John Maddox, lo storico direttore di «Nature» che negli anni ‘80 inventò le notizie sotto «embargo» (la pratica di comunicare le notizie scientifiche in anticipo ai giornalisti, con l’impegno a renderle pubbliche solo dopo una data concordata, n.d.t.). Tra gli anni ’80 e ’90, dunque, si è passati da un rapporto diretto tra scienziati e giornalisti a un rapporto mediato dalle grandi riviste, come appunto «Nature» e «Science» che hanno acquistato grande visibilità e molto più potere. Il giornalismo scientifico forse si è fatto più «embedded».

Scoperte come l’acqua su Marte o le onde gravitazionali ora vengono date da tutti i quotidiani e siti in contemporanea. Ma così non è anche un’informazione più omologata?
Infatti, la tendenza si sta invertendo. Nelle testate internazionali che fanno informazione scientifica in modo serio, come New York Times o Boston Globe, l’ansia di dare per primi una notizia sta già passando. Hanno capito che l’accuratezza è più importante. Anche a «Le Scienze» ci stiamo orientando in questa direzione. In futuro, daremo meno spazio alle news del giorno ma più spazio all’approfondimento dell’informazione.

Oggi qual è il rapporto tra scienza e opinione pubblica? Il dibattito sulle fake news ti appassiona?
È un rapporto complicato. Le fake news non mi preoccupano molto. Il problema delle «bufale» è il modo in cui attecchiscono. Non avendo una formula collaudata per liberarsene, si ricorre al principio di autorità o all’insulto. È fondamentale invece far capire che nella scienza, che rimane il modo migliore di conoscere di cui disponiamo, le opinioni non hanno tutte pari dignità, ma i fatti sì. Opinioni diverse devono essere fondate su evidenze sperimentali, se si prescinde dai dati si fa solo politica. Non bisogna confrontare le persone ma i fatti che ne supportano le idee. La comunità scientifica funziona così.

Ma anche i dati vanno interpretati. I lettori lo sanno fare?
È vero, è un problema reale. Secondo me riguarda soprattutto l’informazione, non tanto il pubblico che ne è solo l’utilizzatore finale, come si dice. A fare da filtro tra ricercatori e opinione pubblica e, aggiungo, decisori politici, c’è un’informazione scientifica non sempre preparatissima. Spesso, ad esempio, non sa interpretare dati statistici. Sappiamo, ad esempio, che una ricerca non basta mai o quasi validare o invalidare una teoria scientifica, eppure spesso si fa confusione. Ti faccio un esempio: recentemente si è diffusa l’idea che la carne rossa sia cancerogena, ma in realtà c’è solo un piccolo aumento dell’incidenza di una o due tipologie di tumore. Bisognerebbe parlare di fattori di rischio e quantità consigliate, invece si descrive la carne rossa come la peste.

C’è un grande dibattito sull’editoria scientifica, che molti ritengono strozzata dai costi imposti dai due o tre gruppi editoriali dominanti. Alcuni importanti enti di ricerca europei hanno deciso di pubblicare le loro ricerche solo su riviste «open access». Pensi che un giorno la ricerca scientifica sarà tutta «aperta»?
Innanzitutto, dichiaro il mio conflitto di interessi. «Le Scienze» è l’edizione italiana di «Scientific American» e appartiene a uno di quei grandi gruppi editoriali, il gruppo Springer che pubblica anche «Nature». È difficile fare previsioni. Si potrebbe andare persino in direzione opposta, vista la recente decisione europea sul copyright.
L’open access inizialmente ha avuto un ruolo positivo. Oggi ci stiamo rendendo conto che in certe condizioni può essere persino pericoloso: ci sono riviste open access che pubblicano ricerche di pessima qualità. La «peer review» (la valutazione delle ricerche da parte dei membri della comunità scientifica per decidere quali ricerche pubblicare sulle riviste tradizionali, n.d.t.) non è perfetta. Forse si può migliorare, rimuovendo l’anonimato dei revisori o proseguendo la valutazione delle ricerche anche dopo la pubblicazione. Ma è difficile immaginare un sistema molto più aperto di quello odierno. Chi realizza scoperte importanti tuttora preferisce pubblicarle su riviste prestigiose come «Nature».
E i gruppi editoriali oggi forniscono molti altri servizi alla comunità scientifica fuori dal web, come l’analisi dei big data. Raggiungere la sostenibilità economica solo sul web attualmente è difficile. D’altronde capisco chi sostiene che gran parte delle ricerche pubblicate sono già state pagate da finanziamenti pubblici e sembra strano pagare di nuovo per poterle leggere. In ogni caso, sono contrario alle coercizioni. Obbligare i ricercatori a pubblicare su questa o quella rivista è una violazione della libertà di ricerca.

Quali sono i temi su cui si discuterà di più nei prossimi anni?
La coscienza. Non sappiamo molto di cosa succeda nel cervello. Grazie alle neuroscienze e al neuroimaging, il dibattito sarà sempre più ampio e coinvolgerà anche l’opinione pubblica perché riguarderà questioni fondamentali come il libero arbitrio. Anche l’intelligenza artificiale farà parlare di sé, perché andiamo verso un mondo sempre più gestito dai robot e da sistemi di controllo di massa pervasivi. Infine, c’è il tema della manipolazione genetica. Il dibattito finora si è avvitato soprattutto sugli ogm. Oggi ci sono strumenti più flessibili. Sarebbe bello che questi dibattiti andassero avanti e non indietro, bloccando le ricerche a priori.

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Da mezzo secolo
per la divulgazione

È in questi giorni in edicola il numero 601 di «Le Scienze», uscito in edicola per la prima volta cinquant’anni fa. Per celebrare il compleanno, un numero speciale dedicato alle prospettive attuali e future della ricerca scientifica mondiale. La prima parte è dedicata al rapporto tra scienza e cittadinanza: il fisico Giorgio Parisi spiega «a che serve la scienza», mentre la filosofa Chiara Lalli esplora quattro aspetti del rapporto tra scienza e società: l’accesso, la libertà di ricerca, il diritto alla conoscenza e il legame tra scienza e democrazia. Nella seconda parte, alcuni dei più illustri collaboratori internazionali di «Le Scienze» presentano i settori di ricerca da tenere d’occhio nei prossimi cinquant’anni. Dalla materia oscura agli extra-terrestri, dalla coscienza alla nascita della vita, dalla manipolazione genetica all’intelligenza artificiale, alcuni dei maggiori esperti mondiali e spiegano i campi più «caldi» della scienza del XXI secolo.