Nei giorni scorsi François Vatin, professore di Sociologia a Paris Nanterre, è stato in Italia per tenere alcuni seminari tra le università di Napoli e Salerno sul tema del lavoro salariato in una prospettiva storica. La sua riflessione coinvolge le forme più recenti dell’occupazione e i progetti di riforma del mercato del lavoro promossi in Francia dal nuovo governo Macron, e della sua riflessione sono testimonianza alcuni saggi raccolti nel volume L’economia politica del lavoro. Mercato, lavoro salariato e produzione (pubblicato di recente da ombre corte, a cura di Davide Bubbico, pp.254, euro 22). In occasione dei seminari svolti, abbiamo posto a Vatin alcune domande, a partire dai temi contenuti nel volume.

Nei suoi saggi, parlando del lavoro salariato, evidenzia la natura ambivalente di emancipazione e di alienazione; ma il suo successo, spiega, ha anche posto le basi per un’aspirazione diffusa allo statuto del lavoro da parte di chi ne è rimasto escluso. È così?
L’istituzione salariale è fondamentalmente ambivalente: da una parte è «liberale», si basa sul contratto (espressione della libera volontà delle due parti); dall’altra, afferma la subordinazione del lavoratore al datore di lavoro. È «emancipatrice» perché si è sostituita ad altre forme di controllo sociale del lavoro, basate sulla soggezione personale (schiavitù, servitù o lo stesso patriarcato), ma induce anche, come sottolineava Marx, a una forma di alienazione, poiché il lavoratore non è proprietario del risultato del proprio impiego ed è sottomesso a delle regole organizzative. La controparte di quest’alienazione è una certa sicurezza (comunque relativa) che spiega l’aspirazione crescente al lavoro salariato.Contrariamente a quello che spesso si crede, nel corso di questi ultimi decenni, il numero di lavoratori salariati in paesi come la Francia o l’Italia non è diminuito. Al contrario, è aumentato – e in particolare per la salarizzazione crescente delle donne – fino al punto da rappresentare una forma di esclusione per quelli che non rientrano in questo standard di occupazione e non beneficiano del sistema di protezione collegato.

Nel 2000 l’associazione degli industriali francesi (Medef) propose il ritorno ai principi di una «libertà del lavoro», che originariamente lei ritrova anche tra i primi pensatori socialisti, ciò che implicava un superamento della dimensione del rapporto salariale…
La critica del lavoro salariato è ricorrente e proviene da diversi schieramenti ideologici. I primi pensatori liberali erano molto critici verso il lavoro salariato perché in contraddizione con la completa libertà del soggetto. Molti tra i pensatori socialisti, a cominciare da Marx, erano per l’abolizione del lavoro salariato le cui conseguenze alienanti andavano a danno dei lavoratori e per le condizioni di sfruttamento che vi erano implicite. Anche i seguaci del corporativismo, come gli ideologi del fascismo, indicavano nel superamento del lavoro salariato la condizione necessaria per una vera cooperazione tra padronato e lavoratori. Ciò nonostante il lavoro salariato «resiste», perché corrisponde a una forma di equilibrio, sicuramente fragile e imperfetta, tra forze contraddittorie.

La recente crisi economica ha riproposto una difesa del lavoro salariato per le migliori garanzie di accesso alla protezione sociale. Cosa ne pensa?
Quando la disoccupazione è alta, il lavoro salariato è rivendicato soprattutto da chi desidera essere protetto rispetto ai rischi che innescano le crisi. In questa fase, invece, i datori di lavoro rivendicano forme di occupazione più «flessibili». Ma questa osservazione può essere fuorviante, poiché quando il mercato del lavoro è favorevole ai salariati, in una situazione di crescita, sono i datori di lavoro che cercano di stabilizzare la manodopera e ciò spiega le politiche «paternalistiche» che hanno avuto corso in Europa nel XIX e all’inizio del XX secolo.
In una recente ricerca che sto conducendo nella regione di Tangeri in Marocco, un’area che sta vivendo una rapida crescita industriale, ho osservato strategie di questo tipo tra le imprese multinazionali del settore auto. Hanno il problema di trattenere la manodopera per effetto di un turnover causato dalla maggiore mobilità dei lavoratori, che dipende dalla concorrenza tra le imprese, capaci di offrire periodicamente salari più alti per attrarre i lavoratori.

Lei scrive che in origine il termine salario indicava il compenso per un’azione criminale, ma che poi, nel corso di un secolo, il suo significato è completamente cambiato.
La parola «salario» viene dal latino «salarium»: razione di sale del soldato. Questa dunque rinvia all’idea del reclutamento, della sottomissione a colui che paga, come per il mercenario. Questa connotazione negativa del termine si è mantenuta per lungo tempo in francese. Louis Say, economista e industriale, fratello dell’economista liberale Jean-Baptiste Say, scriveva nel 1836: «In francese la parola salario ha quasi sempre un significato negativo. Si dice che quello ha ricevuto un salario per questa cattiva azione; si dice il salario del crimine e non il salario del lavoro».
Ancora nel 1932 il giurista Jean Lescudier scriveva: «C’è una tendenza più o meno affermata tra i ceti medi a considerare solo l’operaio come un salariato con tutto quello che questo termine può comportare di peggiorativo con riferimento alle masse». C’è voluto molto tempo affinché il termine «salario» acquisisse una connotazione positiva. L’evoluzione del significato della parola ha accompagnato l’estensione del lavoro salariato che si è progressivamente generalizzato a tutti gli ambiti sociali. Oggi, i salariati rappresentano in Francia il 90% della popolazione attiva e la stessa classe «borghese» è ampiamente salariata.

Come viene osservato nel suo libro, Marx ha messo in guardia i suoi stessi lettori dal rischio di analizzare il lavoro solo nella dimensione dello sfruttamento.
Marx è indiscutibilmente il teorico del lavoro salariato come forma di sfruttamento. Ha dimostrato che a dispetto dell’apparenza liberale del contratto di lavoro, questo induce una subordinazione del lavoro al capitale che è all’origine del profitto (teoria del plusvalore). Ma, contrariamente a quanto alcuni affermano, non è un critico assoluto del lavoro. Per lui il lavoro è prima di tutto un’attività naturale dell’uomo, un mezzo per produrre valore d’uso, ma anche per realizzarsi attraverso l’azione. Intende liberare il lavoro dall’oppressione capitalista che considera tuttavia come un «progresso» in confronto alle forme precedenti di oppressione fondate sulla soggezione personale.
Dopo un secolo di studi da parte delle scienze psicologiche e sociali applicate al lavoro, è possibile andare oltre, sulla scia di Marx, per mostrare che, anche nell’ambito del rapporto salariale, il lavoro non è riducibile alla sola dimensione del salariato. Affinché l’organizzazione produttiva funzioni è necessario investire se stessi nel proprio lavoro, assegnandogli un valore al di là della remunerazione attesa. È anche per questo che la disoccupazione è così dolorosa: non è semplicemente la perdita di reddito (più o meno compensata da misure di protezione sociale), ma è anche una perdita di status, identità, stima di sé che si elabora nel quadro della propria esperienza di lavoro.