Minuta, vestita di bianco, le labbra rosse e i capelli nerissimi. Ride quando ammette di amare il cinema horror – «Mi appassiona e mi fa dimenticare tutto il resto» – ma anche i film di Wakamatsu come Su su due volte vergine che in Spagna, dove Angelica Liddell è nata, a Figueroa, battezzata nella chiesa di Salvador Dalì – come si legge nelle sue biografie – sono difficilissimi da trovare. Del resto anche lei, come il regista giapponese, si è spesso ispirata alla cronaca per le sue storie di passioni e crudeltà. La immaginiamo bene anche su un set di Tim Burton, con quella grazia che cela un mondo visionario di violenze, fantasmi surreali iniettati in una scrittura e in una performance provocatorie, che l’hanno resa una delle protagoniste della scena mondiale.
La sua compagnia, Atra Bilis, è nata nel ’93 ma in Italia Angelica Liddell è arrivata tardi, solo nel 2011, poi ha vinto il Leone d’argento alla Biennale teatro di Venezia, e ora debutta nella capitale nel cartellone di RomaEuropa con Tandy. Ispirato a un racconto di Sherwood Anderson nella raccolta I racconti dell’Ohio (1919), Tandy che viene presentato come l’inizio del Ciclo delle Resurrezioni, racconta di una bambina solitaria che incontra uno straniero che la ribattezzerà Tandy. Un nome che diventa una profezia.

Come è arrivata al racconto di Sherwood Anderson che ispira «Tandy»? Nelle sue pagine questo scrittore amato da Hemingway e da Faulkner percorre il paesaggio del Midwest che è stato e continua a essere un luogo importante dell’immaginario americano. Cosa la interessava in quel mondo?

Ho letto il libro anni fa, era una delle mie letture preferite, e riprendendolo in mano a distanza di tempo mi sono accorta che i suoi personaggi mi rappresentano: ci sono molte affinità tra noi nella solitudine e nel bisogno di amore.La storia di Tandy narra di un forestiero che arriva in un villaggio dove vive una bimba col padre, la mamma è morta. L’uomo si innamora di questa ragazzina che ha solo sette anni, e questo sentimento pone delle domande: se Dio è la stessa cosa dell’amore, perciò su Dio ma anche sull’arte.

In che senso?

Pensiamo alla Divina Commedia: Dante utilizza Beatrice come tramite per arrivare a Dio. Quello che succede nel racconto di Anderson non appartiene alla dimensione dello scandalo ma esprime per me una ricerca quasi brutale d’amore. Ed è questo sentimento che porta il protagonista a proiettare sulla bimba un’idea del sublime, che non è scandalosa perché la bambina diviene una sorta di altare.La necessità di amore sfocia nel sacro, e va oltre ogni nostra idea di «scandalo».

Il lavoro che ha presentato alla Biennale di Venezia quando ha ricevuto il Leone d’argento, metteva al centro la violenza dell’uomo sulla donna. Il testo era «Lo stupro di Lucrezia» di Shakespeare (divenuto poi «You Are my Destiny», ndr).

Anche in quel caso l’opera originale rappresentava per me un mezzo con cui indagare su qualcos’altro, in particolare sulla debolezza umana al di là dei sessi. Il personaggio di Tarquinio è un uomo affascinato dalla bellezza, la sua violenza mi interessava nell’ottica della sofferenza che provoca il desiderio. Non penso a quel lavoro come a uno spettacolo sulla violenza sessuale, piuttosto sulla debolezza umana che va oltre i sessi. Non siamo in un tribunale, il campo in cui muovo col teatro è quello della ricerca sugli esseri umani. Mi interessava esplorare quel punto torbido e spaventoso che è il desiderio insormontabile, e perché la violenza appartiene alla natura maschile come qualcosa che la caratterizza. Volevo parlare di debolezza umana attraverso lo stupro, lasciando fuori i giudizi morali.

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Lei ha esordito più di vent’anni fa, anche se in Italia è arrivata per la prima volta solo nel 2011, con un teatro di radicale rottura rispetto alle forme dominanti. Cosa è cambiato da allora nel suo approccio alla scena, e nella sua ricerca?

Il mio punto di vista sul mondo è lo stesso di allora ma la forma con cui lo esprimo è cambiata moltissimo. Sono passata da lavori basati su un soggetto e su personaggi secondo le regole aristoteliche più «classiche« all’esposizione di me stessa per poi spostarmi ancora verso il senso del mistero. Verso quello che sostiene cioè le opere, che ne è la sostanza e quasi sempre rimane invisibile.

Torniamo a «Tandy». In che modo ha lavorato sul passaggio tra la pagina e la scena?

Ho iniziato a imparare il testo di Anderson a memoria mescolandolo ai miei diari. In questo modo però non riuscivo a sentirmi a mio agio, e nemmeno a impadronirmi delle parole. Inoltre volevo evitare quell’esposizione brutale che caratterizza i miei lavori precedenti a favore dei dettagli anche i più minuscoli; non cercavo il sesso sfrenato, la masturbazione, l’erotomania, avevo in mente un rituale in cui mi immaginavo coperta con un velo. Tandy in questo senso rappresenta una sfida perché parte da un luogo diverso dalla rabbia che domina in tutti i miei spettacoli. Tandy nasce dall’amore, e va contro questa mia natura, una cosa che all’inizio mi sembrava impossibile. Non mi permetteva la ribellione ma esigeva una violenza interna quasi come quella che nei mistici produce le stigmate.

E la rabbia ora è andata via?

(Ride). No, la rabbia c’è sempre, è sempre lì.