«Qualche anno fa mi capitò tra le mani il libro di Radivoj Simonovic, un medico che nel suo centesimo anniversario scrisse un ricordo della peste che nel 1795 colpì la cittadina serba di Irig. Nella stesura delle sue pagine, Simonovic aveva utilizzato i tre volumi pubblicati nell’agosto del 1886 dal professor Ferenc Schraud dell’università di Budapest. È a questi volumi che ho attinto».
Classe 1969, Vule Zuric è uno dei più brillanti e prolifici scrittori serbi contemporanei, autore di diversi libri, racconti e radiodrammi, nonché collaboratore di supplementi culturali. È autore del romanzo storico La ragazza dagli occhi di cenere dato alle stampe per la prima volta in Serbia nel 2017 e ora pubblicato in italiano dall’editore pugliese Besa Muci (traduzione di Servio Roic, pp. 196, euro 16).
La trama è quanto mai attuale: si dipana in Serbia nel 1795, quando una terribile epidemia di peste si abbatte sul distretto di Srem mietendo nella sola cittadina di Irig oltre duemilacinquecento vittime in meno di un anno. Per la precisione, scrive Vule Zuric nell’epilogo, «prima della peste Irig vantava 4813 abitanti situati in 973 case. Di questi 3389 si ammalarono di peste e 2548 ne morirono». L’elenco dei morti sarà pubblicato nel 1996, in occasione del duecentesimo anniversario, quando la Società scientifica per la storia della cultura medica della Vojvodina di Novi Sad organizza un convegno scientifico a Irig.
A fine Settecento i funzionari dello Stato indossano guanti, si lavano le mani con l’aceto e ingoiano pillole di mercurio. Sono queste precauzioni, sembrerebbe, a far sì che non si ammalino. Per contenere la diffusione della malattia, tutti gli abitanti devono restare in quarantena nelle loro abitazioni, che dapprima devono essere ben approvvigionate in modo che il bisogno di abbandonarle sia ridotto al minimo; l’uscita è consentita solo a persone più che affidabili. Bisogna pulire tutte le case, arieggiando i locali. Ogni giorno occorre individuare i nuovi malati e portarli subito all’ospedale. Nel caso che la malattia si palesi dopo la prima pulizia effettuata dagli inquilini, questi ultimi devono essere portati nel lazzaretto e la casa deve essere nuovamente pulita.

A FINE SETTECENTO le autorità non devono però combattere soltanto contro il morbo della peste, ma anche contro la stupidità della popolazione che si affolla nella casa dei morti, ne bacia le mani e porta con sé i suoi averi in ricordo. E devono lottare anche contro un bigotto sacerdote secondo cui le morti non sono altro che «il meritato castigo a causa del mancato rispetto nei suoi confronti e nei confronti della sacra chiesa ortodossa».
Fra la gente corre voce che a portare il morbo sia una ragazza con gli occhi di cenere e uno scialle bianco, ma solo le autorità chiamate a gestire l’epidemia conoscono la verità. Al telefono da Belgrado, Vule Zuric spiega in un ottimo italiano che «i personaggi sono tutti veri, tranne Šerid Zade, la bellissima ragazza dagli occhi di cenere il cui ruolo è portare un elemento romantico nella narrazione storica e politica. «L’ho inserita perché nella mitologia dei Balcani la peste è sempre preceduta da una ragazza con queste caratteristiche. Nel descriverla ho tratto ispirazione dalla letteratura serba del Novecento e in particolare dal romanzo Migrazioni di Miloš Crnjanski, che aveva lavorato presso l’ambasciata della Jugoslavia a Roma, e dalle opere di Ivo Andric, l’unico iugoslavo ad essere insignito del Nobel per la Letteratura».