Si sarebbe tentati di iniziare come si faceva una volta nei congressi di partito: dall’analisi della situazione internazionale per poi arrivare al «caso italiano». Varrebbe la pena perché fuori dall’Italia succedono cose interessanti. Corbyn, Mélenchon, Sanders, Podemos, Syriza.

Esiste una sinistra, dai valori antichi e alle adesioni giovani. Che cresce essendo sinistra, non cercando i voti al centro o realizzando il programma della destra, come da noi. Perché – alla rovescia dal secolo scorso – il caso italiano è un disastro. Siamo quasi l’unico paese d’Europa in cui non c’è una sinistra decente. E non come “etichetta” ideologica buona a coprire pratiche di ogni tipo. Su questo ha ragione Podemos. Come cultura politica vissuta, non solo dichiarata, senso della giustizia e della libertà. Costruire l’uguaglianza, liberare le differenze, era scritto su un muro del sessantotto parigino.

E però il voto del 4 dicembre indica che una certa idea di democrazia nel paese esiste – come contenuti, linguaggio, stile di vita.

Sono i contenuti che Falcone e Montanari hanno indicato nella loro proposta. Quelli della disuguaglianza crescente, ormai oltre i livelli di Balzac e Austen, come ha dimostrato Piketty; quelli dei migranti, dello Stato sociale, del paesaggio, della pace, della scuola e della sanità. Insomma i temi della carta costituzionale. Che ha dato prova in due referendum di non essere solo carta ma di avere radici profonde nella testa e nell’anima di una grande parte dell’Italia.
Ma adesso che fare?

L’appello conferma ancora una volta che esiste un mondo e una cultura diffusa che non sono rappresentati dai partiti e dai raggruppamenti della sinistra esistente. Dimostra anche, forse, che viviamo una crisi della rappresentanza e della politica; che c’è l’esigenza di inventare nuove forme della comunicazione e delle relazioni politiche, legate alla vita delle donne e degli uomini che vivono e soffrono la nuova antropologia del neoliberismo: solitudine, paura, competizione. E che sono radicali. Non stanno nell’orizzonte di questa Europa dell’austerità e della finanza. Non stanno dunque nemmeno nei paradigmi di pensiero e di pratiche che hanno tristemente definito e tristemente definiscono il centrosinistra in Italia. E la socialdemocrazia in Europa.

Perché la crisi italiana della “sinistra di governo” non nasce con Renzi. È l’incapacità di leggere le trasformazioni per gestirle e non esserne gestiti. È la caduta di un pensiero critico. Renzi le ha dato solo un di più di spettacolarità, cialtroneria e arroganza.

Il 18 giugno a Roma di sicuro una parte importante di questa società civile e politica si ritroverà al teatro Brancaccio.
Sarà bello.
Sarà la dimostrazione che un’altra Italia esiste, come comunità di cultura, impegno, solidarietà, associazionismo, come desiderio di partecipazione e di polis. Esiste, può resistere e costruire altro.
Però sarà soprattutto fondamentale il 19 giugno. Il giorno dopo, quello più difficile.

Sarebbe importante che quell’incontro non restasse solo una bella discussione. Tutte e tutti coloro che interverranno avranno naturalmente pari dignità, semplici cittadini o dirigenti di partito. Ognuno con la sua storia.

Ma quella parte di cittadinanza politica che chiama al confronto ha una responsabilità in più, diversa e notevole. Quella di non salutarsi felici e poi lasciare il campo agli addetti ai lavori di sempre. Ognuno ha le proprie competenze e il lavoro di tutte e di tutti ha una connotazione politica, ma se si resta chiusi nel proprio mondo, allora il rischio grave è che la politica continuino a farla i politici. E questo nell’Italia di oggi non ce lo possiamo permettere.

C’è bisogno di qualcosa di radicale e di radicalmente nuovo per uscire dalla crisi – dalla «frantumaglia» di Elena Ferrante. Qualcosa di travolgente. Una proposta che non si può rifiutare, che attragga e trascini con sé i soggetti adesso confusamente sulla scena. Non è possibile delegare ancora una volta le responsabilità ai partiti esistenti, né immaginare una semplice sommatoria, neppure un coordinamento o federazione di sigle polverizzate. Anche nel pensiero. C’è bisogno di una proposta netta, decisamente centrata su alcuni contenuti di fondo. Forse oggi di natura più etica che politica.
L’atteggiamento nei confronti dei migranti, la difesa dell’umano di fronte al disumano, come ha scritto Marco Revelli per la manifestazione di Milano del 20 maggio. L’attenzione verso le povertà, per la dignità del lavoro, i diritti civili cioè la libertà di inventare la propria vita ed essere se stessi, la liberazione delle donne dalla violenza del potere maschile, proprietario e la liberazione degli uomini dalla prigione del potere.

Per dare vita a un processo del genere occorre il protagonismo di soggetti nuovi. Occorre progettare un percorso diffuso sul territorio. Assemblee incontri iniziative. Che parlino e diano voce a quella società che soffre e cerca una dimensione collettiva della propria vita. Vuole esserci. Non solo come comparsa o spettatore disincantato dello show politico dominante da televendita.

La proposta elettorale che potrebbe uscire dovrà essere naturalmente la più ampia e inclusiva possibile. Presentarsi alle elezioni con l’obiettivo massimo di superare un qualche quorum è la cosa più minoritaria, triste e perdente, che si possa fare. La maniera migliore per non raggiungere lo scopo. Potrà essere effettivamente unitaria se appunto metterà al centro temi e obiettivi, rendendo ben riconoscibile la cultura politica che li produce. Un’identità forte ma tutt’altro che di nicchia.
Ci vorrà una notevole dose di creatività e invenzione. Anche di pazienza e capacità di mediazione. Si tratta di dare vita a uno spazio pubblico di confronto che sarà naturalmente anche il luogo di una competizione per l’egemonia. Ma va bene così: la diversità delle visioni e degli orizzonti può rendere tutto più difficile e faticoso, però può anche spingere finalmente alla costruzione di una soggettività fatta di un tessuto di relazioni politiche decenti. Forti quanto miti. Umane.

Dove non domini l’aggressività e il narcisismo di chi sa appartenere solo all’identico a sé; dove si accetti la presenza di letture anche diverse della realtà che ci circonda, se ci si riconosce compagne e compagni.

Capaci di spezzare il pane insieme. E donarlo al mondo.