Non posso dire di avere veramente conosciuto Luigi Pintor. Non sono mai riuscito a superare la soggezione per una storia, un’intelligenza, una serietà così alte. Nemmeno quando cercavo di scrivere una storia orale della Resistenza romana ho avuto il coraggio di chiedere a lui, che ne era stato protagonista, un’intervista. Solo di fronte all’ultimo dei lutti dolorosi che gli hanno segnato la vita ho osato avvicinarmi e dirgli che gli volevo bene.

Me lo ricordo una sera, in una affollata assemblea dei tempi del manifesto gruppo politico. Con un’improvvisa accentuazione delle sue vocali sarde, in una frase sola, senza cattiveria ma senza appello, sgonfiava la retorica di un giovane rivoluzionario non tanto diverso da me. Ti faceva sentire, scrivendo o parlando, che le parole sono fatti, e che te ne devi prendere la responsabilità. Ne ha dette e scritte tante, in decenni di politica e di giornalismo; non credo che ne troveremmo una a vanvera o una di troppo.

Ogni volta che ho scritto un articolo per il manifesto – quotidiano comunista fondato da Luigi Pintor – ho pensato: queste parole andranno sullo stesso giornale dove vanno le sue. Le leggerà lui, probabilmente. Devono valerne la pena; non lo devono annoiare; come le sue, il più possibile, non devono sprecare la carta su cui sono scritte e gli alberi con cui è fatta.

Per il solo fatto di esserci, per gli standard che ci ha dato, è stato maestro.
È questione di stile, ovviamente; ma ascoltando e leggendo Luigi Pintor capivi che lo stile è una questione morale. Il suo stile è il rigore di un’Italia rara e migliore, di una sinistra senza retoriche, e migliorava col tempo, con l’indignazione e col dolore. I suoi libri – Servabo, La signora Kirchgessner – sono gioielli rari in una letteratura italiana che conosce poco l’arte dell’aprire abissi dicendo il meno possibile. Era anche un musicista, e si sente, non fosse altro che nella capacità di far risuonare il silenzio.

Come avrei voluto che l’Italia fosse come lui, avesse il suo rigore ma anche il suo senso dell’umorismo – che è sempre stato per Luigi Pintor l’esatto opposto delle buffonerie di chi cerca la risata complice per fare il simpatico. Era uno strumento di conoscenza, una lama che tagliava l’assurdo in nome di una sensatezza della ragione che è tutt’altra cosa dal senso comune. E avrei voluto che la sinistra fosse come lui, realista e non rassegnata, autoironica e non disfattista, appassionata e senza sentimentalismi. Forse, avrei voluto essere io come lui, ed è per questo che non mi permettevo di prendermi confidenze.

Si domandava se eravamo destinati a morire democristiani. Ci ha lasciato in giorni fra i più cupi di quella repubblica che aveva aiutato a fondare. Nella Signora Kirchgessner, ricordando i giorni passati nelle mani degli aguzzini fascisti e nazisti, scrive: «Il tenente in divisa, che maneggiava il frustino al piano di sopra, era in cuor suo un patriota e sarebbe oggi un senatore.» È una profezia ironica e sconsolata, e accurata. Ma non è un’ammissione di sconfitta, è solo la constatazione che non è finita e che c’è da combattere ancora.

Dice un personaggio di Faulkner, dopo una guerra perduta: «Ci hanno ammazzato, ma non ci hanno ancora battuto.» In tanti modi diversi e lungo tanto tempo, la morte ha toccato spesso Luigi Pintor, ma la rassegnazione mai. Noi, che l’abbiamo avuto con noi, cerchiamo di meritarcelo.