L’ultima lettera che Friedrich Dürrenmatt scrisse a Max Frisch resta tra le testimonianze più emblematiche di cosa significhi considerare la letteratura un fatto personale. L’11 maggio 1986, l’autore di Un requiem per il romanzo giallo così scriveva da Neuchâtel al suo acerrimo amico: «Ti ho sempre considerato, essendo tu uno che con tanta determinazione fa del proprio caso personale il mondo, ed essendo io uno che con altrettanta cocciutaggine fa del mondo il proprio caso personale, come una correzione della mia scrittura».

Con queste parole, che posero fine di fatto a una competizione e a un’amicizia durata molti anni, Dürrenmatt individuava con radicale lucidità le due uniche opzioni dialettiche tra un io che scrive e il mondo, che scrivendo, viene convocato sulla pagina. Un autore si siede al tavolo e ha un mappamondo sulla scrivania: chi dei due si specchierà nell’altro? Per Dürrenmatt Frisch è un cartografo che limita le sue perlustrazioni ai confini di se stesso. A Frisch in fondo basta l’io, sembra dire il suo antagonista, per disegnare una mappa, laddove invece per Dürrenmatt è il puntino sperso nello spazio a mettere la penna in moto.
Se allo scadere del Novecento Dürrenmatt forse vinceva ai punti, è indubbio che il Duemila va a Frisch. I suoi diari, prima ancora dei romanzi, mettono in scena un io che, attraverso le proprie lacerazioni, racconta un mondo che può soltanto essere frainteso. O messo sotto l’ipoteca di uno sguardo.

È evidente che l’opera di Emmanuel Carrère sta sotto quella stessa stella, e l’uscita di Propizio è avere ove recarsi (Adelphi, nella traduzione accurata di Francesco Bergamasco, pp. 429, euro 22,00) aggiunge un tassello importante alla lettura di un’opera tra le più significative della letteratura contemporanea. In questo volume, uscito esattamente un anno fa in Francia da P.o.l, l’autore di Limonov raccoglie venticinque anni di testi giornalistici o d’occasione, interventi pubblicati su quotidiani o riviste a partire dal 1990, a commento di oggetti sociali o culturali. I contesti vanno da «Le Nouvel Observateur» a «Télérama», da «Positif» a «XXI» a «Première» a «Le Monde des livres» a «l’Événement du jeudi». Alcuni dei testi sono stati pubblicati precedentemente in cataloghi oppure pronunciati dal vivo, come La somiglianza, la lectio magistralis che Carrère tenne nel giugno 2014 al Premio Von Rezzori.

I soggetti degli scritti sono i più diversi: fatti di cronaca nera, reportage della Romania post Ceaucescu, un’intervista fallimentare a Catherine Deneuve, il progetto per un film russo, un resoconto di quattro giorni a Davos tra i magnati dell’economia mondiale, qualche postilla ragionata su Defoe e Balzac, parecchi affondi su Limonov («L’ultimo dei demoni») e la Russia contemporanea, un epicedio struggente per Claude Miller, un articolo su Dick, una testimonianza di umana impotenza di fronte allo tsunami («Morte nello Sri Lanka») e molto altro.

Sono oltre quattrocento pagine che rispondono a una domanda tutt’altro che secondaria: dove volgeva il suo sguardo Carrère tra un libro e l’altro? Che cosa faceva poi confluire dentro i suoi romanzi? Tanto, ci dice questo libro: ciascuno dei testi qui raccolti può essere letto come il seme, o lo schizzo, per un romanzo a venire. Chi conosce i libri di Carrère troverà echi continui. I fatti di cronaca agghiaccianti che aprono il volume rimandano a La settimana bianca e L’avversario; lo Sri Lanka è uno dei terreni in cui si muove quello che a oggi resta forse il suo romanzo più significativo, Vite che non sono la mia; la Russia dei reportage rima alla perfezione sia con La vita come un romanzo russo sia con Limonov; il testo fiorentino racconta la genesi del Regno; e così via. Insomma, Carrère viaggia e mette in cascina per poi fare altri fuochi con quella stessa legna. O, ancora, rivolge lo sguardo là dove in realtà sta già guardando, in mondi dentro i quali sta forse già rimestando un romanzo.
Ma i testi di Propizio è avere ove recarsi sono, prima di tutto, un interrogarsi incessante su una questione: che postura tenere in faccia al mondo. C’è una domanda, prioritariamente stilistica, che si agita dentro questo libro: in che modo, sembra dire Carrère, rimbocco le coperte al mondo che ho davanti? Qual è lo stile, ovvero la posizione morale ed estetica, che tengo quando mi chino sopra la tastiera? Qui si nasconde il vero nucleo atomico di questo libro che, lungi dall’essere una semplice raccolta di scritti messi insieme per occasioni commerciali, si rivela come un’architrave nel lavoro di Carrère.
Lo stile, innanzitutto. Sui romanzi dello scrittore francese si è detto e scritto molto: si è parlato di non fiction e autofiction, c’è chi gli ha negato qualsiasi statuto romanzesco, relegando il suo lavoro a un giornalismo molto soggettivo. Il suo stile era un rovello per chi voleva fare della letteratura materia da tassonomie. Il suo duello tra l’io e il mondo generava morbosità e disappunti. Oggi, leggere i testi di Propizio è avere ove recarsi ci mette di fronte a un’evidenza: da almeno venticinque anni Carrère sta scrivendo un’opera ininterrotta, che si travasa di libro in libro, di scrittura in scrittura. Chi legge i suo romanzi è convinto di leggere dei reportage, e a leggere i suoi reportage è evidente che ci si trova dentro lo stesso congegno letterario dei suoi libri.

Le sue parole, ci dice questo libro, potrebbero essere messe in sequenza a comporre la Recherche degli Anni Zero. A differenza di Proust, Carrère costruisce il passato andando avanti, scrive la propria storia agendola, performandola con il corpo e le parole. L’io non è stato una volta per tutte: rischia di estinguersi a ogni passo.

C’è un testo centrale in questo volume: si intitola «Capote, Romand e io». In questo articolo, pubblicato su «Télérama» nel marzo del 2006, Carrère racconta la genesi dell’Avversario, e la sua lotta con quel modello inarrivabile che era A sangue freddo. Come mettersi in relazione con un modello così ingombrante per maneggiare una materia – la cronaca nera – che tanto e tanto poco ha a che fare con la finzione narrativa? Carrère studia il libro di Capote, lo interroga, tenta di carpirne segreti e differenze. È quella la direzione in cui vuole andare, non c’è dubbio. Il caso di Jean-Claude Romand, il mistero della sua doppia vita e l’orrore di quella strage familiare, non è quello dei Perry e Dick di A sangue freddo. Eppure la letteratura, pensa Carrère, non può che passare per quella strada. Ma in letteratura – è questa la verità – esistono soltanto strade personali: l’autore di La settimana bianca si rende conto che non può andare lontano calzando scarpe altrui. Per questa ragione, dopo anni di sconfitte, decide di rinunciare. Non scriverà il libro su Jean-Claude Romand. Il che è una liberazione.
Per archiviare del tutto la faccenda, sente però il bisogno di prendere alcuni appunti riepilogativi: «Ho ripreso le mie vecchie agende e, per la prima volta in parecchi anni senza arrovellarmi, ho scritto la prima frase: “La mattina del sabato 9 gennaio 1993, mentre Jean-Claude Romand uccideva sua moglie e i suoi figli, io ero a una riunione all’asilo di Gabriel, il mio figlio maggiore, insieme a tutta la famiglia”. Ho continuato, e solo dopo qualche pagina ho capito che avevo finalmente cominciato a scrivere il libro che da tanto tempo mi sfuggiva. Accettando la prima persona, accettando di assumere la mia posizione». Il 9 gennaio del 1993 è nato il Carrère che conosciamo. Il suo caso personale è diventato il nostro mondo.