Starei ad ascoltare John Waters per ore ed ore. La sua carica affabultatoria è così seducente, talmente irresistibile, che riuscirebbe a strappare un sorriso anche all’essere più bigotto sulla faccia della terra. Perché le cose che racconta sono soprattutto contagiose. E uno resta lì a bocca aperta, gli occhi spalancati. Come se alla fine fossimo stati catapultati in una strana Oz, fatta di sostanze psicotrope, dolciumi e mirabile cattivo gusto (bisogna avere molto buon gusto per apprezzarlo).

Uno si ritrova a pensare che sarebbe stato bello essere un teenager a Baltimora, Maryland, e frequentare la Dreamland Crew, questo mucchio selvaggio fatto di punk, dropouts, drogati, figli di papà, che Waters sintetizza così, all’interno di I am Divine, biografia filmica realizzata da Jeffrey Schwarz, passata giorni fa sugli schermi milanesi del Festival Mix, e dedicata a una delle stelle più brillanti e misconosciute che la cultura americana ci abbia lasciato in eredità, Divine appunto: «Credimi, era la migliore dimostrazione che il melting pot esiste». [do action=”citazione”]Primi anni sessanta o giù di lì. A John Waters viene regalata la prima cinepresa e a Glenn Milstead i panni del bravo ragazzo stanno stretti. Non solo perché adora il cibo ed è sovrappeso. L’adorata madre, Frances, lo porta da un dietologo e lui all’uscita sorride strizzandogli l’occhio: «Andiamo a mangiarci una pizza». Il fatto è che Glenn adora le acconciature femminili. E non solo quelle. Stupisce la prima fidanzata, quando si presenta con David Lochary, una specie di freak dai capelli bicolore, ossigenati. I due frequentano un corso da estetista, una specie di accademia del trucco. «In quel periodo – racconta Susan Lowe nel film – tutti i parrucchieri erano gay». Più chiaro di così. Per Glenn è l’incontro decisivo. Fard, lacca per capelli, rossetto, eyeliner: decisamente, la bellezza può avere diversi gradi di sfumature.[/do]

Ad un party, Glenn si presenta acconciato da Elisabeth Taylor, sua icona dell’epoca. Il successo si può misurare dal numero di corteggiatori che gli ronzarono intorno.
Per comprendere cosa stesse accadendo ai teenager americani dell’epoca non è necessario studiare pesantissimi tomi sociologici. Basta ascoltare Psychotic Reaction dei Count Five, leggersi qualche testo scritto da Lester Bangs, magari quello che apre Guida ragionevole al frastuono più atroce (in Italia pubblicato dai tipi di Minimum Fax) o vedersi qualunque B movie. Problemi sessuali repressi, violenza, isteria. La diversità non viene certo vista di buon occhio. Per uno come Glenn, sistematicamente pestato ogni volta che esce da scuola (tanto che – egli ricorda – la polizia è costretta a scortarlo a casa), le cose non devono essere state facili. L’incontro con David Lochary e con la Dreamland Crew, stanziale a Provincetown, a due passi da Baltimora, fa ruotare l’asse su cui sta in equilibrio precario la sua vita. È lì che si ritrovano Glenn Milstead, John Waters, David Lochary, Mink Stole, Susan Lowe e altri. Ed è lì che, citando Lou Reed, «then he was she». Nasce Divine. E non è neppure un caso che, nel film, a raccontare la vita di Divine sia presente anche Holly Woodlawn, a cui quelle righe di Walk on the Wild Side sono dedicate. Perché lì, a Provincetown, la pressione, lo stress sembrano svanire nella quotidianità vissuta dai Dreamlander. Canne, LSD, PCP, molta incoscienza, molta indolenza. Non che ci si annoi però. Ma anche considerare la propria esistenza come un party prolungato può causare una forma di routine, e forse è proprio per vincerla che John Waters ingaggia i componenti della gang per girare i suoi primi film. Hag in a Black Leather Jacket (1964), Roman Candles (1966) e poi Eat your Makeup (1968) dove Divine interpreta una bellissima Jackie Kennedy da trecento libbre. L’omicidio viene ricostruito con minuzia (gli abiti di Jackie e l’automobile) e perfidia comica. Sono passati si e no cinque anni dai fatti di Dallas. Roba da non credere. Ma sono solo le prime avvisaglie della serie di film che seguiranno, e che porteranno i nomi di Divine e John Waters alla ribalta nazionale.

La storia è nota: Mondo Trasho (1969), Multiple Maniacs (1970), Pink Flamingos (1972), Female Trouble (1974). Da questo punto di vista, il documentario biografico di Jeffrey Schwarz svolge il suo compito con dovizia cronologica. E in effetti, sarà per la presenza massiccia di Waters, ma la prima parte del film è anche quella più coinvolgente. La costruzione è classica: anche troppo. Il famoso finale di Pink Flamingos, quello in cui Divine ingoia davvero una merda di cane, viene narrato, mostrato tagliando il gesto giusto qualche fotogramma prima. E ho idea che questo taglio non abbia tanto a che fare con la paura che la gente vomiti in sala (per Waters ogni conato di vomito suonava come una standing ovation per il film), quanto con la paura di compromettere futuri passaggi televisivi.

Detto questo, la narrazione procede per interviste, ad amici, collaboratori di Divine. E il film ne segue la parabola fino alla morte prematura per arresto cardiaco, nel 1988, qualche giorno prima di apparire nella serie tv Married with Children: è la parabola di una Drag Queen che si prende gioco del concetto di Drag (si veda tutta la parentesi Californiana, a San Francisco, tra le Cockettes), che finisce la carriera morendo prima di interpretare la parte di un uomo in una serie televisiva, zio Otto, passando attraverso il teatro e l’esperienza glamour della nascente discomusic (Waters sostiene che Divine abbia inventato la techno). C’è tutta la complessità del personaggio Divine in questa parabola. Alla sfrontatezza punk degli esordi fa seguito la voglia di essere considerati come un vero attore professionista. Sarà che il tempo passa e gli angoli più aspri vengono smussati. Bisogna guadagnarsi da vivere (ne sa qualcosa anche John Waters). Ma recitare è ciò che che Divine ha sempre saputo fare, fin dagli anni in cui mentiva ai genitori, soffiandogli denaro per allestire party per gli amici.
I film successivi realizzati con John Waters la tratteggiano con gli abiti punitivi di una casalinga disperata, quasi neorealista (forse ho le traveggole, ma in una foto mi pare somigli ad Anna Magnani). In Polyester bacia però l’icona dei teenager anni ’50, Tab Hunter, di cui da adolescente era follemente innamorato. E l’icona bacia Divine, un transessuale di trecento libbre, con grande trasporto e naturalezza, come se stesse baciando Nathalie Wood (si incontreranno di nuovo sul set di Lust in the Dust, uno strambo western). Eppure, manca il glamour.

Quando Van Smith, il suo costumista e truccatore dai tempi della Dreamlander Crew gli mostra gli anonimi abiti di scena, Divine si scioglie in lacrime. La sua vita era davvero pensata bigger than life. Ed era davvero tutta una questione di makeup, di artificio, come ricorda Mink Stole in una sequenza del film. Perché il fard, l’eyeliner, il rossetto, funzionano a volte come una copertura, nascondono un difetto, a volte velano ciò che si logora, finanche la morte (chiedete informazioni a Andy Warhol).
Ci sono fotografie nella seconda parte del film che mostrano Divine insieme alla famiglia, a natale. Parlo della sua famiglia biologica, non della Dreamland Crew. Ed è davvero commovente sentire Frances Milstead parlare del loro riavvicinamento. Eppure, è un’altra l’immagine che mi resterà di Divine. Non quella per cui verrà ricordata, non la scena della merda di cane, anche se il il film è sempre quello: Pink Flamingos[FIRMA_SOLA]. Jeffrey Schwarz la mostra in I am Divine. È un’inquadratura quasi documentaria, rubata, ripresa da un automobile e mostra Divine camminare sinuosa sul marciapiede di un quartiere nero di Baltimora, come una specie di Clarabella in acido, come una specie di Jayne Mansfield punk, o, se volte, come la reincarnazione trash di Roscoe «Fatty« Arbuckle. Quello che sia, potete leggere sul volto dei passanti tutto lo stupore, tutto lo spavento per qualcosa di magnetico e insieme incomprensibile.