Nato glottologo e poi per tanti anni professore di Filosofia del linguaggio, Tullio De Mauro è stato anche educatore, ministro, divulgatore, direttore di imprese di cultura e tante altre cose. Ma per chi abbia frequentato da non specialista la parte tecnica dei suoi studi, restano in mente le due pubblicazioni che gli diedero subito notorietà solida e diffusa. Da una parte la Storia linguistica dell’Italia unita (1963), dall’altra l’edizione del Corso di linguistica generale di Saussure (1967). Si tratta di due libri che hanno avuto importante risonanza anche fuori del territorio specialistico, perché cadevano in un momento di svolta della cultura italiana, che si andava sprovincializzando con l’accentuare alcuni suoi tratti specifici in chiave europea.

IL CORSO di Saussure contribuì non soltanto a creare nuovo fervore intorno agli studi linguistici, ma anche a propiziare il clima della stagione dello strutturalismo, del quale era il caposaldo insieme agli studi di Roma Jakobson. È una stagione di cui molto si discute ma che, nel bene e nel male, ha segnato il tempo anche negli studi letterari. De Mauro, che pure con l’edizione e la traduzione di quel libro fondamentale aveva dato il via, la guardò svolgersi si crede con qualche distacco e non senza ironia.

La Storia linguistica dell’Italia unita è ancora oggi, con tutti gli aggiornamenti che De Mauro ha prodotto nel corso degli anni, un libro di riferimento per chi voglia non soltanto scrutare un aspetto fondamentale dell’identità italiana, ma anche per chi voglia correttamente porsi di fronte a vere persistenze e presunte novità linguistiche. Statistiche alla mano, De Mauro percorreva la storia italiana come istituto e come movimento: non un capitolo della storia italiana ma una parte costitutiva e fondamentale, al pari di altre.

QUALCHE MESE FA, gli fu chiesto dalla direzione l’editoriale per un numero di Nuovi Argomenti dedicato allo stato attuale della lingua italiana (il titolo del fascicolo, curato da Giuseppe Antonelli: Che lingua fa?). Il suo pezzo tardava ad arrivare. Si credeva per qualche intervenuta pigrizia o per qualche disguido. Invece De Mauro alla fine consegnò un ampio aggiornamento della questione della lingua in Italia nel cinquantennio che va dal centenario dantesco del 1965 al 2015. Ne risultava una lezione che non andrà dimenticata: la lingua è il bene di una comunità da osservare, curare e preservare. È una questione civica.

ERA DI GRANDE CHIAREZZA nelle idee e nell’esposizione: ciò che gli fu utile per concepire, per esempio, una specie di enciclopedia del sapere di altissima divulgazione: i Libri di base. Insomma: attraverso le parole ragionava di ogni cosa e a diverse altezze. Lo testimonia anche la sua autobiografia: un mondo percepito fin da ragazzo attraverso le parole. Tra le parole e le cose, fin dall’inizio, ci fu per lui un andare e venire completo, una corrispondenza perfetta. Le sue conoscenze da ragazzo furono, diceva, delle vere e proprie epifanie linguistiche, delle rivelazioni della realtà.
Era naturale capire da lì che le parole – la loro storia e sostanza – sarebbero state il suo destino, non solo di studioso.

NELLA POSTILLA FINALE di Parole di giorni lontani, la prima parte dell’autobiografia, aveva scritto: «anche nella sfera personale ogni volta che si propongono questioni su inciampi e incomprensioni linguistiche, su come davvero siamo riusciti a conoscere una certa parola, e a entrare in una lingua e a farla nostra, emergono e si impongono altri problemi che investono strati profondi della nostra individualità, i rapporti con gli altri, le nostre memorie e speranze, la percezione della nostra identità».