I festeggiamenti e l’appagamento da vendetta compiuta fuori dall’aula del tribunale di New Delhi, se possibile, vanno ad aggiungere ulteriore angoscia ai contorni dello stupro di Nirbhaya, crimine che ha riacceso i riflettori sull’emergenza della violenza di genere in India.
Ma la società indiana, scossa al punto da ritrovare l’indignazione di fronte a stupri che rientrano ormai nell’ordinaria scaletta delle cronache locali, fatica a focalizzare l’attenzione sulle ragioni culturali e sociali alla base della violenza contro le donne. Infame tradizione che , con buona pace dei boia e dei loro sostenitori, è destinata a continuare.
Il valore delle condanne a morte inflitte in primo grado ai quattro imputati ha sicuramente una portata storica, ma occorre fare attenzione alla manipolazione dei fatti operata a uso e consumo di un’opinione pubblica arrivata al verdetto all’apice della frustrazione. In questi otto mesi e mezzo l’India non ha fatto altro che attendere un segnale di intransigenza da parte della legge, una pena esemplare che potesse mostrare la determinazione di un popolo nell’affrontare a muso duro una bestialità del maschio considerata inevitabile, insanabile se non con la repressione e la paura, l’effetto deterrente della gogna.
Ecco il primo inganno: la condanna a morte non è stata impartita per lo stupro, bensì per l’insieme di crimini – tra cui l’omicidio e la tortura – di cui si sono macchiati gli imputati. La richiesta popolare di un inasprimento delle pene è rimasta inevasa dalla Corte Suprema, ufficialmente per i tempi lunghi dell’iter legislativo, e il patibolo temporaneo – mancano ancora due gradi di giudizio – offre alla folla un sollievo immediato, si prende tempo.
Inoltre, la morte dei quattro invocata dall’opinione pubblica e dalla politica – stavolta in modo compatto – non trova corrispondenza in casi di analoga atrocità che hanno coinvolto, ad esempio, le forze militari speciali nei villaggi del nord-est, o nell’agghiacciante caso di Soni Sori, attivista del Chhattisgarh sospettata di maoismo, che nel 2011 venne violentata dalla polizia mentre era in stato di fermo: i medici di Calcutta che la visitarono dopo lo stupro scoprirono che i poliziotti le avevano inserito nella vagina e nel retto delle pietre.
La sentenza è in linea con la risposta dell’esecutivo, che da quest’anno a New Delhi ha messo fuorilegge le tendine nei bus pubblici, annunciando un aumento delle telecamere a circuito chiuso e dei pattugliamenti nella città: tutte attività di contrasto al crimine che non intaccano la natura maschilista e segregazionista della società indiana.
Le parole dell’avvocato difensore Ap Singh, riportate da India Today, esemplificano lo stallo del dibattito: «Perché la gente prima non controlla le proprie figlie? Brucerei viva mia figlia se facesse sesso prima del matrimonio e andasse in giro di notte col suo ragazzo». Estremizzazione di una mentalità ampiamente diffusa nel paese che colpevolizza l’emancipazione delle donne trasformandola in tentazione, rafforzando la consuetudine che limita la libertà personale femminile per preservarne la «decenza».
La scrittrice e giornalista Annie Zaidi, durante un’intervista, ha sintetizzato l’approccio che le donne indiane dovrebbero adottare nella lotta contro le molestie: «Bisogna iniziare a smettere di sentirsi in colpa o spaventate. Ci è stato insegnato che dovevamo prenderci la responsabilità di qualcosa che non è per niente sotto il nostro controllo. Di coprire i nostri corpi; di evitare di attirare l’attenzione attraverso le nostre espressioni, parole, sguardi; di non uscire dopo che fa buio; di non uscire sole; di non parlare con gli sconosciuti; di restare buone se siamo molestate, perché altrimenti potremmo subire effettiva violenza fisica. Ma tutto ciò non cambia niente».
Un altro dato interessante è stato sollevato dalla scrittrice Nilanjana Roy, in un editoriale pubblicato lo scorso 20 dicembre sul quotidiano The Hindu. Secondo le statistiche governative del 2011, nel 94 per cento dei casi di stupro denunciati in India lo stupratore conosce la vittima, nel 32 per cento è un amico o un vicino, segno che il pericolo di violenza è altissimo anche «a casa», dove le figlie e le mogli dovrebbero sentirsi al sicuro.
L’introduzione della pena di morte per gli stupri potrebbe addirittura peggiorare le cose. In alcune comunità rurali, come in Uttar Pradesh, non è raro che gli stupratori decidano di bruciare vive le proprie vittime, per evitare il rischio di riconoscimento davanti alle autorità.
Una conseguenza terrificante che porterebbe con sé il tanto auspicato effetto deterrente della gogna di stato.