«Intorno alla gente del mio tempo c’è un’intensa circolazione di sangue e morti. Per colpa di questa grande circolazione di tragedia, nei miei romanzi, forse a volte involontariamente, la guerra, in qualche misura, c’è sempre», scrive Mercè Rodoreda – scomparsa nel 1983, e ancora oggi la figura più importante e illustre della letteratura catalana contemporanea – nel prologo a Quanta, quanta guerra…, romanzo oscuro e memorabile apparso per la prima volta in lingua originale nel 1980, e ora riproposto in italiano da La Nuova Frontiera (traduzione di Stefania Ciminelli, pp. 188, euro 16, 50).

IL TRAUMA DELLA GUERRA, in effetti, affiora in buona parte della sua opera: devasta la vita di Colometa in quel La piazza del Diamante che guadagnò all’autrice fama internazionale, fa da sfondo all’adolescenza di Cecilia in Via delle Camelie e contribuisce alla distruzione della famiglia Valldaura in Lo specchio rotto. Ma, sul finire degli anni ’30, una Rodoreda ancora sconosciuta aveva già affrontato l’argomento nei suoi primi racconti (poi parzialmente raccolti nell’antologia Contes de guerra i revolució) e in un romanzo mai pubblicato, Les nits blaves, nato forse per rispondere alle esortazioni dell’Institució de les Lletres Catalanes e dei suoi Servizi di Cultura per il Fronte, che sollecitavano la nascita di una letteratura di guerra in catalano.

Nell’Institució, del resto, Rodoreda aveva lavorato per alcuni anni, sia per adesione convinta agli ideali antifascisti e repubblicani, sia per evadere da un matrimonio infelicissimo con uno zio materno ben più anziano di lei (vicenda di cui si può cogliere un’eco in Aloma, l’unico, tra i suoi quattro romanzi giovanili, a non essere da lei disconosciuto), finché nel 1939 dovette varcare la frontiera francese per andare incontro a un esilio concluso solo nel 1972, quando, ormai celebre, poté stabilirsi in un paesetto vicino a Gerona.

Lì nacquero le sue ultime tre opere, che sembrano segnare un distacco dal realismo della narrativa precedente (così attenta ai personaggi femminili e capace di ritrarre magistralmente la società barcellonese), e che testimoniano l’evoluzione di una scrittrice capace di concedersi nuove libertà, sviluppando ulteriormente le sfumature magiche e oniriche che già caratterizzano Lo specchio rotto o racconti come lo stregonesco La salamandra, ma senza rinnegare certe sue costanti (per esempio la passione per il mondo vegetale, o la minuta descrizione dei piccoli gesti quotidiani).

Immediatamente preceduto da Viaggi e fiori, breve testo che annuncia l’emergere di questa sotterranea corrente di sogni e visioni, Quanta, quanta guerra… sembra anche anticipare il postumo e incompiuto La morte e la primavera, ambientato in un universo immobile, privo di connotazioni spaziali e temporali, che offre una sola via di uscita: la muerte arbolada, suicidio rituale in cui il corpo si fonde per sempre al tronco di un albero.

ANCHE ADRIÀ GUINART, protagonista di Quanta, quanta guerra…, cerca, da bambino, di diventare una pianta: «Dopo aver scavato una buca molto profonda ai piedi del nocciolo, mi ci infilai e mi ricoprii di terra fino alle ginocchia. Avevo portato l’annaffiatoio pieno d’acqua e mi annaffiai. Volevo che mi nascessero le radici: essere tutto rami e foglie». Ma il suo non è un desiderio di morte, quanto un segno dell’infinita curiosità che, nell’adolescenza, lo spingerà ad andare in cerca di avventure mentre infuria la guerra, che, spazzando via regole e convenzioni, gli consente di accedere a una temibile ma allettante libertà.

La sua quest, segnata dall’apparizione ricorrente di Eva, ragazza dagli occhi viola (non una principessa da salvare, ma una giovane guerriera che spesso soccorre il suo sprovveduto cavaliere), si risolve in un lungo vagare attraverso un paese rurale e arcaico, devastato e senza nome, dove è facile imbattersi in topoi fiabeschi – il castello, la casa nel bosco in cui si annida una vecchia malvagia, lo specchio stregato – e in personaggi insoliti e misteriosi, impigliati in fili che rimandano al mito o alla leggenda.

E per raccontare le vicende di Adrià, che vuole conoscere il mondo ma anche riconoscersi, l’autrice adotta la struttura del romanzo picaresco: una sequenza di episodi legati dalla presenza di un antieroe solitario, ingenuo e ardito, che sperimenta via via la fame, la paura, la meraviglia, l’incertezza estrema della sorte e perfino dell’identità propria e altrui, mentre il tempo tragico e confuso della guerra gli insegna la crudeltà, che esplode nel momento in cui viene svelata la sorte finale di Eva, e la compassione, che lo spinge a seppellire morti sconosciuti. Finché, a guerra conclusa e dopo un’ultima gloriosa visione in un bosco affolltato di cadaveri, il ragazzo sarà pronto per tornare a casa, anche se la sua, forse, non esiste più.

NON C’È DA STUPIRSI, dunque, se Quanta, quanta guerra… è stato letto secondo chiavi interpretative assai diverse, che ne sottolineano di volta in volta la fitta simbologia e le coloriture allegoriche, mistiche, esoteriche o psicoanalitiche: si tratta di un racconto apocalittico sul perpetuo scontro tra Bene e Male, di un viaggio iniziatico, di un romanzo di formazione? Ognuna di queste ipotesi è attendibile, ma non va dimenticato che indizi tenui e inequivocabili ci indirizzano verso luoghi riconoscibili (all’inizio vengono citati San Gervasi, quartiere di Barcellona dove la scrittrice nacque nel 1908, e poi Gràcia e Sarrià, la ferrovia di Sabadell, strade e giardini della capitale catalana) e un conflitto identificabile: la guerra civile spagnola, pur se raccontata in modo così ellittico e allusivo da sancire l’assoluta anomalia del testo rispetto alla vasta produzione letteraria sul tema, compresa quella catalana, che ai nomi di Pere Calders, Avel·lí Artís-Gener o Joan Sales (autore dell’imponente Incerta glòria, nonché amico e autorevole editor della Rodoreda) associa una narrativa realistica, antiepica e perfino ironica.

TRA RAGAZZI col fazzoletto rosso al collo che per tre anni combattono una guerra fratricida, bombardamenti, rovine, bambini morti per fame, fucilazioni di civili, villaggi distrutti, la storia di Adrià ignora insomma il canone cronachistico e testimoniale per intraprendere altre vie e approdare a significati più ampi e complessi.

Come Juan Benet – autore da lei diversissimo, ma ugualmente impegnato a trasformare la guerra civil in racconto mitico e allegorico, e per questo tanto più inquietante -, Mercè Rodoreda riesce ad evocare la tragedia di una nazione e a renderla universale, dandole toni di fiaba poetica e crudele che non ignora le seduzioni dell’oralità ed è costellata da innumerevoli citazioni letterarie, filosofiche e visive, trasfigurate e assorbite da uno stile squisito e più che mai personale. È così che Quanta, quanta guerra…, riesce a comprendere in sé tutte le guerre e ci costringe a riconoscere nelle sue pagine le immagini del presente.