«Ho l’impressione che di notte il mondo ci abbandoni. Smettiamo di vederlo. Scompare e rimaniamo con quel poco che resta di visibile; e senza quelle distrazioni che il giorno ci rivela, la nostra vista non è solo limitata, ma si affina e si concentra su ciò che per la maggior parte di noi è il mondo – noi stessi. Così il disagio che teniamo a bada nella frenesia e nell’immobilità della luce del giorno – persone e automobili ed edifici e autostrade e boschi e campi e distese d’acqua – racchiuso nell’oscurità della notte può diventare disperazione».
A parlare è Gerry Fontenot, il sottotenente di marina protagonista di «Le morti in mare», la magnifica novella con la quale si apre Un’ultima inutile serata, settimo libro e quinta raccolta di racconti di Andre Dubus, che ci viene ora proposta da Mattioli 1885, suo editore italiano, nell’ottima traduzione di Nicola Manuppelli (pp. 275, euro 18,00). Le parole di Gerry potrebbero valere per molti degli altri personaggi che popolano il libro, caratterizzato – come ci ricorda il traduttore stesso in una nota introduttiva – dal predominio di un regime crepuscolare o più decisamente notturno.

Alla notte non si sfugge
È notte fonda quando Fontenot, ufficiale di guardia, contempla il mare avvolto nell’oscurità, attendendo il rientro dei marinai in libera uscita, e medita – come gli accade di fare più volte nel corso del racconto – sul retaggio di odio razziale che sperava di essersi lasciato alle spalle abbandonando la cittadina del Sud nella quale era nato, e che invece torna a perseguitarlo anche nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. È notte fonda quando Molly, la ragazza quattordicenne protagonista dell’omonima novella, cresciuta senza padre e con una madre troppo impegnata a farle da amica e sorella maggiore per insegnarle davvero come stare al mondo, perde la verginità a opera di Bruce, il fratello di un’amica. È notte fonda quando la protagonista di «Rose», seduta in un bar a bere liquore, confessa all’io narrante di aver assistito in complice silenzio alle violenze cui il marito sottoponeva i suoi tre figli. Ed è notte fonda quando, in «La terra dove sono morti i miei padri» – insolita incursione di Dubus sul terreno del noir, dedicata non a caso al suo grande amico James Crumley – George Karambelas esce da Timmy’s, lo stesso bar di «Rose», troppo ubriaco per poter rimediare un passaggio a casa, e per sfuggire al gelo entra nello studio di un medico, attratto dalle luci ancora accese nonostante l’ora tarda. Peccato che il medico in questione giaccia cadavere sul pavimento, e che George, smarrito e senza neppure sapere il perché, si impossessi della pistola che trova in terra accanto al corpo, ficcandosi così in un mucchio di guai.

Nella breve citazione da «Le morti in mare» risuona allora il senso più profondo dell’intera raccolta, pubblicata negli Stati Uniti nel 1986, subito dopo quelle che restano forse, insieme a Il padre d’inverno, le due opere maggiori di Dubus: I tempi non sono mai così cattivi e Voci dalla luna.

Nel cuore della notte, quando le distrazioni che il giorno rivela svaniscono, lo sguardo dei personaggi tende a concentrarsi su ciò che per la maggioranza di loro coincide con il mondo intero, vale a dire se stessi. Ma a quel punto, nulla può tenere a bada il disagio, che racchiuso nell’oscurità rischia a ogni istante di trasformarsi in disperazione. È quanto accade a Gerry Fontenot, che scopre in mare, grazie all’amicizia che lo lega al suo nuovo compagno di cabina, il nero Willy, l’intensità di un senso di colpa che, in quanto bianco e uomo del Sud, non è in condizione di estinguere né di superare; o a Rose, costretta a riconoscere la complicità totale che si nasconde dietro un lungo silenzio; o a Molly, che insieme alla verginità dice addio all’adolescenza e ai suoi sogni, e in uno dei finali più dolci e strazianti che sia dato ricordare cerca disperatamente la luce, quasi in un ultimo, vano tentativo di fermare lo scorrere del tempo: «Sbattendo le palpebre e guardando ancora una volta la neve, tutto ciò che vedeva erano lei e Bruce nell’auto sotto gli alberi, in quella che adesso sapeva essere stata l’ultima notte dell’adolescenza e non aveva parole per spiegarlo a Bruce, o a se stessa, così si voltò, e si affrettò verso il bagno, accese le luci, chiuse la porta e si fermò in mezzo alla stanza, in mezzo a quella luce così intensa che le accecava gli occhi e il cuore».

In Un’ultima inutile serata, attingendo a una vena crepuscolare, un’arte del chiaroscuro da consumato pittore e una lucidità feroce nell’analisi dei personaggi e delle loro silenziose disperazioni, Dubus tocca a tratti i vertici della sua arte di narratore. Come era già accaduto nelle raccolte precedenti, raggiunge i suoi esiti più alti nella novella: quella forma narrativa ibrida, gettata come un ponte tra racconto e romanzo, che forse il solo Brodkey –- e con una tavolozza completamente differente – ha saputo condurre ad altrettanta perfezione.
I modelli cui Dubus attinge sono evidenti e in alcuni casi dichiarati: da Hemingway (omaggiato esplicitamente in «Molly», dove la protagonista viene ripetutamente raffigurata nell’atto di leggere e commentare Per chi suona la campana) a Cechov, a Richard Yates – suo maestro all’Iowa Writers’ Workshop nonché amico di una vita –, del quale condivide la capacità di esplorare nei dettagli più crudi e spietati l’istituzione famigliare come apogeo e tomba dei sogni individuali.

Che si concentri sulle dinamiche del rapporto di coppia – rappresentate con una dolente crudezza che ha ben pochi eguali nella narrativa americana contemporanea – o sul mondo tutto maschile dell’esercito e della marina, i suoi racconti, quando colgono nel segno, raggiungono una sorta di miracoloso equilibrio tra disperazione e fede, crudeltà e speranza.

Poesia della violenza
In un suo ricordo di Dubus, Dennis Lehane ne ha esaltato la scrittura «muscolare e senza paura»: una perfetta via di fuga, dalle secche di quel minimalismo spesso di maniera che affliggeva fin troppi suoi contemporanei, preoccupati di descrivere «una preoccupazione che spesso era solo compiacimento». Un rischio, quello del compiacimento, perennemente fugato grazie alla semplice forza dei suoi personaggi: uomini e donne impegnati nel tentativo incessante di «dare un senso a un mondo pieno di povertà e spargimento di sangue e violenza e impulsi criminali, antichi come l’Antico Testamento.» Concludeva quindi Lehane: «Nessuno nella storia della short-fiction americana ha scritto con tale poesia di violenza e di sogni infranti».

Povertà, violenza, crimine, sogni infranti, dolore, fatica: sono tutti termini utilizzati non solo da Lehane, ma dai tanti grandi scrittori che, da Tobias Wolff a Richard Yates, da E.L. Doctorow a Kurt Vonnegut e Stephen King, hanno riconosciuto in Dubus un maestro del racconto e della novella, Termini che trovano puntuale e concreta incarnazione nelle storie, nello stile, nello sguardo empatico e spietato al contempo di un narratore che, per originalità e potenza, merita di essere definito un classico contemporaneo.