Se poteva esserci qualcosa di utile nella polemica del vice-ministro Fassina nei confronti della proposta del M5S sul Reddito di Cittadinanza (RdC) era di approfondire in modo serio gli aspetti di costo e di sostenibilità finanziaria di una simile misura. Così non è stato. Secondo i dati proposti dalla proposta di legge sul RdC (che sarebbe meglio chiamare Reddito di Base, perché una simile misura non può che essere rivolta a tutti i residenti, cittadini o non cittadini italiani, senza alcuna discriminazione di base), il M5S stima che le risorse necessarie perché tutti abbiamo come minimo un reddito pari a 600 euro mensili ammonterebbero a poco più di 19 miliardi.

Il RdC è erogato sottoforma di integrazione, e non al 100&. Se un pensionato o un precario ricevono un reddito medio mensile di 400 euro, riceveranno un’integrazione sino a 600 euro (quindi 200 euro). Il che è positivo perché in tal modo si crea una barriera alla diffusione di lavoro precari e sottopagati. Occorre inoltre considerare le risorse che già oggi lo Stato eroga sotto forma di reddito diretto, tramite trasferimenti o ammortizzatori sociali e che verrebbero in parte sostituite dall’introduzione di un RdC. Si tratta di una cifra che oscilla (per un livello sino a 600 euro) intorno ai 12-13 miliardi di euro. Una cifra che ogni anno viene già messa a bilancio dello Stato, non rientra nella legge di stabilità e che quindi occorre sottrarre al computo dei costi dello stesso RdC. Ne consegue che la stima dei 19 miliardi necessari per sostenere il costo dell’introduzione di un RdC è la cifra netta, non lorda.
Quando Fassina afferma, senza specificazioni, che il costo del RdC è 30 miliardi, probabilmente fa riferimento alla cifra lorda. Infatti, calcoli già pubblicati sui «Quaderni di San Precario», con riferimento al 2010 e 2011, quando i poveri relativi erano circa 8 milioni, confermano la stima del M5S che ragiona su una povertà che nel 2012 ha colpito più di 9 milioni di individui (+17% dal 2011). Per quanto riguarda il finanziamento, finalmente a carico della fiscalità generale e non dei contributi sociali, la proposta del M5S – per quel che è dato di sapere – intende reperire le risorse dalle pensioni d’oro, dalla rinuncia agli F35, dall’introduzione dell’Imu per gli immobili della chiesa, dall’introduzione di aliquote più alte sulla rendita finanziaria e da altri interventi, in buona parte condivisibili, ma che solo marginalmente toccano la struttura altamente iniqua del sistema fiscale italiano.

La proposta di legge presenta aspetti positivi e innovativi che vanno sottolineati: riforma dei Centri dell’Impiego, l’istituzione un salario minimo di 9 euro l’ora (con buona pace della Camusso), la possibile sostituzione a regime dell’attuale sistema, selettivo, iniquo, distorto e clientelare, degli ammortizzatori sociali (tanto comodo alla Confindustria come al sindacato), la possibilità di rifiutare sino a tre proposte di offerta di lavoro congrua (ovvero in linea con la condizione professionale, reddituale e territoriale del beneficiario). Ma la cultura dell’etica del lavoro e del workfare continua comunque ad aleggiare: occorre una dichiarazione di disponibilità lavorativa (non meglio precisata) e viene introdotto l‘obbligo (?) di prestare comunque un numero limitato di ore di lavori utili (tipo servizio civile?). Si tratta di misure che contraddicono l’idea di un reddito di base come remunerazione della vita produttiva (e quindi non assistenziale), finalizzato al diritto di scelta del lavoro, in nome dell’operosità umana.
Pur con questi limiti, la proposta del M5S (al pari di quella di Sel, che è però meno articolata) appare distante anni luce da quella del Pd (sponsorizzata proprio da Fassina), che prevede l’introduzione di reddito di inclusione al lavoro, novello strumento di ricatto, subalternità, finalizzato a scaricare sulla collettività il costo sociale dello sfruttamento del lavoro precario e del lavoro tout court in nome del profitto e delle compatibilità (inique) del sistema attuale.