Mentre gran parte dei media occidentali partecipano alla macabra lotteria della «crisi ucraina», cercando di indovinare il giorno dell’invasione delle truppe russe, il riarmo dell’Europa orientale e ucraino è già realtà. Droni turchi, paracadutisti e missili americani, contraerea britannica, mezzi canadesi e poi migliaia di lotti di armi e munizioni che arrivano da ogni paese «amico».

Già, perché sembra che oggi in Ucraina gli amici siano solo i Paesi che riforniscono di armi il governo locale. Poco importa che tra questi vadano annoverati personaggi come il primo ministro turco, Recep Erdogan, che si è presentato a Kiev il 3 febbraio accolto in pompa magna da bandierine turche e ucraine intrecciate in tutte le strade del centro. Sui giornali locali ha avuto grande risalto la notizia, annunciata dal ministro della difesa ucraino Oleksiy Reznikov, della firma di un accordo bilaterale per la fornitura di droni militari prodotti dalla «Baykar Makina company» di proprietà del genero di Erdogan. In breve tempo, un impianto di produzione ad hoc sarà costruito sul suolo ucraino per assemblare e riparare i droni senza pilota Bayraktar TB2 forniti da Ankara, gli stessi usati dalle truppe dell’Azerbaijan per colpire le postazioni armene durante l’ultima guerra nel Caucaso.

Il giorno dopo il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha messo in guardia contro la più alta concentrazione di truppe russe in Bielorussia dai tempi della guerra fredda: 30.000 soldati, caccia Sukhoi Su-35, contraerea S-400 e gli ormai tristemente famosi missili Iskander. Secondo il Cremlino si tratta di un’esercitazione militare che dovrebbe terminare il 20 febbraio. Dall’altro lato Kiev ha fatto sapere di essere al 70% degli effettivi dei contingenti di difesa delle frontiere e che raggiungerà la cifra piena stabilita entro la fine di febbraio. Nel frattempo, gli Usa hanno dislocato 3000 uomini tra Romania e Polonia e siglato un accordo con la Slovacchia che gli permetterà di utilizzare due basi aeree militari per 10 anni.

«La Germania invece non ci ama», racconta Ivàn, un informatico trentenne di Kharkiv, metropoli di 1,5 milioni di abitanti a 30 km dal confine russo che dal 1917 al 1934 è stata capitale dell’allora Repubblica Socialista Sovietica d’Ucraina, «perché non ci vuole fornire armi, è più interessata al gas russo». Questo pensiero, condiviso da molti in Ucraina, sintetizza con semplicità la situazione attuale nel Paese. Nelle città la gente vive normalmente, esce la mattina per lavorare, va a fare la spesa o in palestra, la sera affolla i locali e i ristoranti. Non ci sono i sacchi di sabbia agli incroci delle strade ma tutti si dicono «pronti». A cosa? A difendersi da un’eventuale invasione. Il sabato migliaia di ucraini si recano in strutture militari o nelle aree appena fuori città per addestrarsi. Non sono militari di professione, neanche riservisti, ma si è diffusa l’idea che in caso di attacco saranno loro a dover resistere fino all’arrivo delle truppe regolari. Speriamo che questo scenario non si avvererà mai, non è difficile immaginare l’impatto di un esercito ben addestrato su un gruppo di impiegati che ha trascorso i sabati ad addestrarsi con fucili di legno nella boscaglia.

Non si legga quest’ultima affermazione in chiave ironica perché non vuole affatto essere una battuta. L’idea che si sia già arrivati al punto in cui ci si debba «immolare» è falsata alla base. Dal 2014 in poi, la Russia ha smesso di essere il vicino gigante che per decenni ha condiviso la propria evoluzione con quella ucraina ed è sempre più diventato un nemico. Se da un lato i costanti inviti alla calma e all’abbassamento dei toni del presidente Volodymyr Zelenskyj sembra che siano rivolti più agli investitori stranieri che ai propri concittadini, dall’altro la tensione sale fomentata dai proclami dei grandi politici Occidentali e, di rimando, di Putin.

E così succede che siano gli stessi abitanti di Kharkiv, come Ivàn e tanti altri a chiedere: «Ma credi che Putin ci invaderà davvero?». In città la domanda è particolarmente sentita perché diversi analisti hanno indicato il capoluogo orientale come uno dei possibili obiettivi in caso di attacco. In risposta a quest’ipotesi domenica scorsa alcuni comitati cittadini hanno organizzato una manifestazione che si è conclusa nella sconfinata piazza Svobody, delimitata da un lato dalle prime torri di cemento armato dell’Unione Sovietica (1925), ancora oggi abitate e utilizzate, e dall’altro dall’imponente edificio del municipio. «Kharkiv è ucraina» diceva lo striscione di testa mentre i cori dei partecipanti inneggiavano alla difesa della città e alla sconfitta del «tiranno» Putin. Questa situazione di profonda incertezza aggrava il fardello di un popolo già oppresso da un’annosa crisi economica, da tassi di corruzione altissimi e dall’infausto destino di trovarsi tra Occidente e Russia in un momento in cui si cercava un terreno di scontro per riassestare i rapporti di forza.

Al momento attuale una soluzione diplomatica sembra lontana, l’ingente mole di armi e mezzi accumulate nell’area non fanno presagire nulla di buono e lo stesso presidente ucraino si trova a dover arginare le spinte più estremiste dei suoi «patrioti», sempre più influenti sull’opinione pubblica, che di sicuro non accetteranno nessun compromesso al ribasso e, anzi, si profilano come la nuova spina nel fianco di Zelensky sulla strada già accidentata della distensione.