Il 24 aprile di dieci anni fa, Luigi Pintor scrisse il suo ultimo editoriale su questo giornale. Constatava con lucida amarezza che la sinistra italiana era morta e che consolarsi con elezioni parziali o con una manifestazione rumorosa era troppo poco rispetto al vuoto che si apriva. E, pur esprimendo fiducia nei movimenti, riconosceva che non apparivano ancora capaci di reinventare la vita: anche perché le idee, le parole, i comportamenti si mostravano inadeguati a confronto con la dinamica e la prospettiva delle cose.

Dieci anni dopo, la situazione è cambiata. O almeno così pare, leggendo questo giornale che da Pintor è stato fondato. Le idee ci sono, sono tante e compatte. Si affacciano dagli editoriali e dai commenti di prima con insistente sicumera, perfino irridendo quanti ancora non capirebbero i nuovi tempi della Storia.
Il vecchio mondo è finito, ci dicono: se fino a quarant’anni fa una sintesi di fordismo e politiche keynesiane aveva governato lo sviluppo economico e sociale, assicurando la crescita della produzione, dei salari e dei consumi, quel paradigma è diventato improponibile. Non basta più invocare più stato (cioè più spesa pubblica) e meno mercato, anzi non ha più senso: il mondo si è globalizzato grazie alla libera circolazione dei capitali, ai flussi migratori e naturalmente a internet; la crisi ambientale sbarra la strada a politiche pubbliche che si propongano ancora crescita e sviluppo, perché su un pianeta finito non esiste alcuna possibilità che crescita e deficit spending siano infiniti.

Ideologie «orizzontali»
Il nuovo paradigma – si chiami decrescita, riconversione ecologica o economia dei beni comuni – dev’essere perciò pensato senza alcuna possibilità di governo «dall’alto» o comunque da un «centro», ma semplicemente come effetto di interconnessioni orizzontali: degli impianti produttivi (finalmente riterritorializzati) e delle istanze di governo (anzi, di autogoverno). Sono queste le uniche forme ipotizzabili di controllo sociale sul lavoro, sui beni comuni e sul credito, e di esse solo gli enti locali (a cominciare dai comuni: nomen omen) possono essere intestatari, in virtù della loro prossimità alle istanze partecipative delle collettività di riferimento.
Si tratta di un paradigma che – si dice – è già entrato nelle preferenze politiche della popolazione italiana e che potrebbe tranquillamente essere adottato dal 99% della popolazione mondiale se solo alla sua realizzazione non si opponesse un riottoso 1% fatto di capitalisti finanziari e partiti politici, che hanno la loro matrice culturale nell’ideologia della crescita di derivazione novecentesca e la loro convergenza d’interessi nel «complesso politico-militare» (che ha sostituito il più noto, ma novecentesco anch’esso, «complesso militare-industriale»). Ma la rivoluzione è qui, a portata di mano: a darle voce e gambe saranno piccole aziende, professionisti e artigiani radicati nei territori in cui operano, giovani precari e in genere tutte le intelligenze libere e oneste che sono oggi raccolte nei movimenti formali e informali. Ai quali basterà l’ausilio di un reddito di cittadinanza e la definitiva disclosure dei nuovi commons rispetto alle rapaci pretese di quell’1% di cattivi che vuole condannare l’umanità intera e la stessa Madre Terra al collasso.

[do action=”citazione”]Se una cosa Berlusconi ci ha insegnato è che la capacità seduttiva di un’argomentazione è indifferente al suo valore di verità, perché suo obiettivo primario è conquistare il desiderio di chi ascolta[/do]

È un’affabulazione seducente e persuasiva, che per giunta in più d’un tratto ricorda proprio quell’«internazionale» evocata nell’ultimo editoriale di Pintor: individui che si riconoscono ed entrano spontaneamente in consonanza, quasi una generalizzazione «senza confini» di quel microcosmo nel quale i comunisti si chiamavano e si riconoscevano compagni. Ma se una cosa Berlusconi ci ha insegnato è che la capacità seduttiva di un’argomentazione è indifferente al suo valore di verità, perché suo obiettivo primario è conquistare il desiderio di chi ascolta. E l’affabulazione corrente sulle pagine dell’ultimo «quotidiano comunista» non fa differenza.
Non è vero, anzitutto, che non è più possibile ritornare al paradigma novecentesco, che in realtà era fondato sulla compresenza forme capitalistiche e socialiste di produzione e riproduzione sociale, con le seconde in posizione di relativa dominanza. Indipendentemente dal fatto che quel paradigma tuttora governa lo sviluppo dei paesi che sono rimasti fuori (et pour cause) dalla «Grande Contrazione» iniziata nel 2008, la crisi che esso attraversa nella maggior parte dei paesi occidentali si deve essenzialmente all’assenza di meccanismi monetari sovranazionali analoghi a quelli a suo tempo istituiti a Bretton Woods. Il che smentisce di per sé la credenza che quel paradigma presupponesse uno «stato-nazione» pressoché autarchico, onde non sarebbe compatibile con la sopravvenuta globalizzazione (che in realtà è al momento più parziale e selettiva di quella d’inizio Novecento, concernendo essenzialmente i flussi di capitale monetario): semmai, è l’esatto contrario.

Ancor meno è vero che quel paradigma, che trovava nella crescita del prodotto interno lordo la misura principe (benché non unica) della propria efficienza, non sarebbe compatibile con la finitezza del pianeta Terra: in punto di teoria, perché il prodotto interno lordo non può essere in alcun modo considerato una misura della pressione ecologica sull’ambiente, salvo ritenere che i prezzi delle merci siano una funzione delle reciproche scarsità relative (un’affermazione di cui Garegnani e Sraffa dimostrarono l’infondatezza oltre cinquant’anni fa). Ma soprattutto, e in punto di fatto, per un banale problema di «scala», come osservò una volta – ma definitivamente – Stephen Jay Gould: noi siamo impotenti alla scala geologica del nostro pianeta. Il quale, essendosi ripreso perfino dall’impatto dell’asteroide che sembra abbia innescato l’estinzione di massa del Cretacico, potrebbe tranquillamente andare avanti anche se improvvisamente esplodessero tutti gli arsenali nucleari, figuriamoci per un po’ di surriscaldamento. Il vero problema è tutto di noi umani: perché con una guerra nucleare moriremmo a miliardi e con qualche grado di temperatura in più rischiamo di trovarci con le nostre città e le nostre campagne sommerse. Ma la sua soluzione richiederebbe di tornare a sottrarre lavoro, terra e moneta dalle pastoie della riproduzione capitalistica: che è precisamente ciò che Polanyi constatava realizzarsi nel corso della «grande trasformazione» degli anni ’30 e Keynes (che solo chi ne ha orecchiato dai manuali d’economia neoclassica può pensare che si occupasse soltanto di breve periodo o di funzione anticiclica della spesa pubblica) suggeriva di realizzare attraverso la «socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento».

Squilibri da transizione
Finalmente, non è vero che non è più possibile concepire una pianificazione centralizzata dei processi produttivi: specie per quelli necessari a realizzare l’auspicabile transizione verso produzioni meno inquinanti è vero l’opposto, perché non si può pensare che la soluzione di problemi complessi e carichi di «effetti di traboccamento» come l’efficientamento energetico o la gestione dei rifiuti sia lasciata al caso di decisioni adottate su base locale. Decentramento e autonomia debbono semmai essere concepiti come rapporti organizzativi volti a implementare l’efficienza della pianificazione centrale, così come l’amministrazione per accordi rispetto all’amministrazione autoritativa, ma non c’è modo di sottrarre la riproduzione sociale alle convulsioni e agli sconquassi provocati dalle fluttuazioni dell’accumulazione capitalistica se non ponendola sotto un «piano comune» (l’espressione, per chi non lo sapesse, è proprio di Marx). La riprova è data dal concreto funzionamento dell’euro negli ultimi dieci anni: gli squilibri commerciali che esso ha creato fra paesi centrali e paesi periferici, l’impoverimento subito da questi ultimi e la rovinosa depressione in cui siamo precipitati illustra infatti al meglio cosa significhi affidare la riproduzione a istituzioni prive di un «centro» politico, com’è attualmente l’Unione europea.
Beninteso, il fatto che nessuno dei non possumus sciorinati contro il paradigma dei «trenta gloriosi» resista al vaglio della critica non implica di per sé che si tratti di un paradigma desiderabile. Certamente non lo desiderano le classi proprietarie, che contro di esso si volsero ferocemente a partire dalla metà degli anni ’70, allorché il suo concreto funzionamento pose all’ordine del giorno la questione dell’eutanasia dei rentiers. Ma senza dubbio non lo desiderano i reduci (per ragioni anagrafiche e/o ideologiche) delle frange più contestatarie e anarcoidi dei movimenti giovanili che tennero banco nel decennio dal ’68 al ’77, che con le classi proprietarie marciarono divise per colpire unite quello strano ircocervo fatto di partiti di massa che guidavano i meccanismi di una riproduzione sociale in parte capitalistica e in parte demercificata. Lo stesso Pintor, due anni prima di quell’ultimo editoriale, ebbe a trarre grave impressione dalla radicalità con cui certi esponenti ormai cresciuti di quei movimenti demolivano tutto il comunismo novecentesco, colpendone al cuore le espressioni politiche, i motivi ispiratori, il formulario concettuale e i moduli organizzativi, per esaltare in loro vece l’idea di una comunità reticolare e irriducibilmente impolitica di volontari. Non c’è dunque da stupirsi se, al netto di qualche «intemperanza», il Movimento 5 Stelle è stato indicato anche su queste colonne come l’interprete più coerente del «nuovo paradigma» che dovrebbe finalmente condurci oltre il Novecento: nessuno come i grillini ha fatto professione antipartito e nessuno come loro è convinto delle virtù salvifiche della Rete, «strumento tecnico» supposto in grado di fungere da levatore dei nuovi rapporti sociali.

La meglio gioventù
Si potrebbe semmai ricordare – visto che abbiamo appena celebrato il 25 aprile – che ci fu un tempo ormai lontanissimo in cui i giovani di questo Paese incontrarono i comunisti, sbucati improvvisamente dal nulla (cioè dalle carceri, dall’esilio, dalla clandestinità) con le stesse bandiere rosse che erano sventolate a Stalingrado dopo che 147.200 invitti soldati ariani erano rimasti a giacere sotto la neve. E che proprio Pintor giudicava una colpa imperdonabile l’aver reciso dalla memoria pubblica quel momento in cui la «meglio gioventù» italiana si era incontrata con il comunismo e l’antifascismo in generale, quello operaio e popolare innanzitutto: nel bene e nel male, come sempre accade, ma soprattutto nel bene, come dimostra fra l’altro quel monumento che si chiama Costituzione repubblicana. Quella cesura «è la causa dello smarrimento, dell’anonimato della sinistra di oggi, ciò che le impedisce di prospettare o anche solo di desiderare una società giusta», scrisse nell’ottantesimo dalla fondazione del Pci: perché – avrebbe aggiunto un mese dopo – la «solidarietà» prospettata dalle comunità reticolari di volontari «è un concetto cristiano-sociale più che un’eco del comunismo utopico: un buon paracadute per non farsi troppo male atterrando, ma che non vale per risalire».
Come che sia, in questo confuso anarchismo «benecomunista» sembra oggi invece credere il manifesto: o meglio, quel che ne resta dopo i furiosi litigi e abbandoni dei mesi scorsi. Di solito, quando in famiglia i genitori litigano e dissipano il patrimonio, i figli riscoprono l’importanza dei nonni. Ma, anagraficamente parlando, Pintor potrebbe venirmi padre e Giuseppe Stalin (di cui peraltro egli scrisse un commosso «Ei fu») bisnonno. È proprio vero che chi è nato a ridosso del ’68 è politicamente orfano.