Mosca, 1917. I poeti non smettono di scrivere: «In quella famosa estate del 1917, nell’intervallo tra due scadenze rivoluzionarie, sembrava che insieme alla persone facessero comizi e assemblee anche le strade, gli alberi, le stelle…». Così Boris Pasternak rievoca gli anni in cui scrive le liriche di Mia sorella la vita e di Temi e variazioni, ideate, queste ultime, come ripresa in termini musicali della prima raccolta, o piuttosto in forma di «risvolto». Convocare il Creato – rendere animato l’inanimato, essere non come un albero, ma albero lui stesso – offre una possibilità di lettura per le sorprendenti metafore di questa seconda raccolta, che Marina Cvetaeva chiama «ustione» in una lettera scritta al poeta, da lei prescelto quale «fratello nella quarta dimensione».

Ora in una prima traduzione integrale, a inaugurare il più ampio progetto editoriale di Passigli, che tradurrà tutte le raccolte liriche di Pasternak, le poesie di Temi e variazioni (nella smagliante resa italiana di Paola Ferretti, pp. 185, euro 19,50 ) sanno stupire anche il lettore più avvezzo, il lettore più stanco, «annoiato di verità e bellezza». La curatrice, traducendo e commentando, ne scompone l’ingranaggio sonoro, azionato da un orefice demiurgo che ricarica le orbite solari: «il più affidabile orologio dell’etere», scrive Pasternak, che nel bosco – «sacra epitome del mondo» – vede traboccare «un brillio di cesello,/ come un orologiaio con le pinze lo maneggi». Immagini di movimento così proprie alla poesia di Pasternak, movimento musicale e insieme abbecedario, erbario di un nuovo compendio di botanica antropomorfa, se colui che lo va stilando è come si fosse fermato al quarto giorno della Creazione, divinava Marina Cvetaeva. E qui «le specie vegetali sono consorterie di sembianze attonite o corrucciate, i fenomeni naturali – figuranti della psiche». Natura come divinità onnipresente e metamorfica, dotata della stessa «reversibilità della materia poetica» percepita da Osip Mandel’štam all’origine di ogni poesia.

Sintassi «embricata»
Proprio Mandel’štam, insieme a Jurij Tynjanov, fu tra i primi e più precisi interpreti della poesia di Pasternak, prodigio di polloni e innesti che cancella i confini fra la cosa e il poeta, e vive nella faglia «porosa» dove un mondo entra a confondersi con l’altro, finché «alberi dai rami protesi si fanno largo negli interni borghesi e gli agenti atmosferici interagiscono col mobilio». Su tutto si posa uno sguardo originario, capace di nominare le cose per la prima volta, con una percezione propria all’infanzia che ancora sosta nell’occhio obliquo di Pasternak, «fusione di un arabo e del suo cavallo», sempre per stare alle parole di Cvetaeva.
«Come occhio equino, dai cuscini, di sbieco,/ ardente sbircio, e insonnie massime pavento»: quella di Pasternak è una poesia da eseguire, più che comprendere, come una «fuga» secondo Ripellino, che ne riconosceva la «sintassi embricata», riottosa alla distensione logica, dominata dal «demone dell’analogia». E da questo intrico di «gomiti», «gelidi come flutti» e mani «come imbelli e volitivi gigli, di raso» la traduzione estrae altrettante immagini e parole, a noi vicine come lo sa essere la lingua madre, in costanti epifanie lessicali. I modi di dire familiari, le prime scoperte dei romanzi adolescenziali, i segreti del mondo adulto, passati di crittogramma in crittogramma, che hanno nutrito di mistero e fascinose paure l’infanzia, come in Così si inizia….

Il tempo delle stagioni – «Roso dal cielo, con l’inverno negli occhi,/ un gonfio arbusto, bianco come il panico», la primavera, con «il guazzetto alticcio di marzo», l’autunno come «celeste infamia di feltro» – vive tutto in queste pagine di poesia umida e accaldata dal fuoco di candela, dove l’immagine della cera si fa essa stessa plasmabile materia, stillante come neve, alla quale viene riservato il ruolo primario di mistero naturale. Il tempo dell’attesa, in una elusiva «Poetica dell’Incertezza», è il tempo di Pasternak, un che di vigile e di smarrito, come nei deliri della febbre, negli attimi dilatati che precedono il sonno e accompagnano il risveglio – in Infermità – trasformando l’ombra proiettata sul muro da uno stoppino acceso in abnormi figure negroidi.

Timbri, crome, quarti. Leggere ad alta voce Pasternak, ha scritto Mandel’štam, impone un continuo adattamento dell’apparato fonico, non lo si sussurra a fior di labbra, non è canzone: «declamare i versi di Pasternak è schiarirsi la gola, forzare il respiro, rinvigorire i polmoni». Impervia, in questa «criptica» raccolta, la resa dei fitti giochi di riprese e scambi fra suono e senso, altrettante scale cromatiche che Pasternak, pianista e compositore, dalla musica abbandonata per scelta traspone nella poesia. La traduttrice vi si inoltra con orecchio e gusto sicuri, simpatetici a tratti, come nel calembour: «si scalmanava a fare lo sciamano», che duplica il verbo russo šamànit’, colto al volo, a compensare semmai altre dissipate sonorità.
Fra le sei sezioni che seguono via via il tormento d’amore, l’epoca – tra il 1917 e il 1919 (Distacco, Infermità) – le predilezioni letterarie (Cinque racconti), le ragioni dello scrivere e le stagioni, (Potevo dimenticarli? Neskucnyj sad), una particolare sorpresa si ricava dalla lettura delle Variazioni dedicate a Puškin, titolo offerto all’intera raccolta, che appaiono in forma di micro-partiture, tutte da impostare con la voce e con la memoria, memoria di letture universitarie, domestiche, intime. Come in un dizionario di lemmi ed emblemi, sono elencati all’inizio, perché tutti lo riconoscano, i sigilli di Puškin: cilindro, cappa, Africa, e poi a seguire una panoplia di temi e figure, ora espliciti ora dissimulati. «Ridda di stelle, scogli tuffati a mare (…) La Sfinge che al Sahara presta ascolto».

Accensioni cerebrali
Altrettanto indimenticabili le poesie ispirate a Goethe e a Shakespeare – quasi dichiarati d’après nei titoli: Margherita, Mefistofele, Shakespeare – per la musica che scatenano, nel lirismo degli amanti colti nel viluppo dei rovi, mentre il Bardo duetta con il Sonetto in una bettola dei sobborghi londinesi, sortendo effetti tutti teatrali. E in alcune formule, come nelle parole scelte, si avverte ancora la presenza di Shakespeare – del quale Pasternak è stato tra i più fini traduttori – la sua opulenza, filtrata qui da una lingua che ha guardato tra gli altri a modelli di traduzione come quelli di Ripellino e di Cristina Campo.

Non meno sapiente la resa della sintassi, ricostruita in una logica pur complessa ma più nostra, laddove non c’è logica, ma regna un’accensione cerebrale, una nota che si propaga e si complica come suono nell’acqua. Ancora Mandel’štam ci soccorre: «Pasternak usa la sintassi di un uomo convinto di qualche sua idea e che discute infervorato e commosso, cercando di dimostrarla: ma dimostrare che cosa?». Per il più ovidiano dei poeti dell’esordio del Novecento, il secolo d’argento, la metafora non è stratagemma, bensì dimostrazione di un assioma: la compenetrabilità della Natura, generatrice di piani e forme intersecate come in un dinamismo plastico alla Boccioni. Svetta il suo alce-giardino, nelle cui ampie corna riposa «il caos dei secoli»: «Fino alla neve si curvò. Dal suolo,/con gran strazio di anse, raccolse/notte e costellazioni».