Scriveva Carl Gustav Jung, in termini quasi profetici: «è conforme alla moderna ipertrofia della coscienza essere immemori della pericolosa autonomia dell’inconscio e spiegarla solo negativamente come assenza di coscienza». Colmiamo sempre più spesso l’incapacità di guardare prospetticamente l’abisso pulsionale che dimora in noi stessi con il rimando autoassolutorio ad una presunta indisponibilità all’introspezione, facoltà che nei dispositivi ideologici dominanti dovrebbe invece contribuire a «fare chiarezza», poiché nulla di oscuro ci è permesso abitare. Temiamo l’ombra non perché sia oscura ma in quanto immagine riflessa di noi stessi.

Luigi Zoja, eminente studioso di estrazione junghiana e analista, consegna al pubblico italiano un’opera preziosa, quasi un vademecum dedicato a Psiche (Bollati Boringhieri, pp. 160, euro 11). Opportuno il fatto che compaia nella agile collana intitolata ai «sampietrini» poiché il suo testo è come una pietra d’inciampo, sulla quale bisogna soffermarsi non per virtù bensì per necessità. Camminando a passo spedito, ma anche a tratti vertiginoso, nell’esistenza quotidiana si incontra la realtà immateriale di noi stessi, della nostra complessa e stratificata immagine, dell’immaginazione che di esse si alimenta, dell’immaginario che si rigenera permanentemente.

L’autore ci invita a pensare che non ci sia nulla di più consistente e persistente di ciò che, con estrema fallacia, reputiamo invece essere le aleatorie categorie dello spirito. Psiche ne è, per l’appunto, il contenitore, esso stesso mobile, permeabile, poroso e mobile.

Un intimo sdoppiamento

Il libro ne ricostruisce la storia, ovvero il modo in cui il più delle volte non abbiamo interagito con essa, le raffigurazioni che ci siamo fatti ma anche lo scacco che spesso ci ha giocato. Poiché la sensazione che si ha, leggendo le pagine di Zoja, è che il rapporto con il proprio «intimo» sia una sorta di vero e proprio corpo a corpo, dove lo sdoppiamento con l’oggetto della propria riflessione si trasforma nel rapporto dialettico con un soggetto a sé stante. La psiche assume così la fisionomia e la sostanza di una vita che si presenta dinanzi a noi.

Si tratta della nostra esistenza, della quale cogliamo gli aspetti di anarcoide irriducibilità ai dettami di un esangue razionalismo, e contro la quale ci esercitiamo, non rendendoci conto che è parte di noi stessi, qualcosa di «terribilmente reale», e non un altro “noi” al quale, alternativamente, associarci o dissociarci in base alle circostanze del momento.

Il nesso tra l’inconscio («la parte della nostra mente di cui non abbiamo percezione diretta») e la proiezione (la pratica di attribuire ad altri, o ad altro, ciò che non si vuole riconoscere come proprio) istituisce buona parte del campo psichico e, con esso, «il problema morale», ossia quello dell’assunzione di responsabilità. Poiché il soggetto unitario è quello che se ne fa carico mentre quello scisso, figura che oggi abbonda e che trova nel mainstream fondamentalista e paranoide la sua compiuta soddisfazione, rigettando una parte di sé si pronuncia per la traslazione di ciò che considera esclusivamente come delle colpe a carico degli altri. Peraltro, ben sa lo storico che è questo un criterio che implica l’azzeramento del campo della politica, dove invece il rapporto tra etica delle responsabilità ed etica dei convincimenti dovrebbe rimanere una dialettica irrisolta, in quanto motore di quel conflitto che ci muove verso il mutamento negoziale e la trasformazione identitaria.

Capacità di immaginazione

A tale riguardo, rimanendo nella sfera della soggettività, Zoja ci rammenta che nell’incapacità di negoziare con se stessi le parti che compongono ogni persona si trova il fondamento non del difetto di razionalità ma della povertà dei simbolismi e, con essa, della capacità di immaginazione.
Il simbolo non è l’inverso della ragione bensì una funzione dell’economia psichica. Ha diversi risvolti, non tutti necessariamente positivi, ma attiva la competenza della condivisione. «Nelle condizioni più oggettive e fitte di norme in cui viviamo, questa agilità delle immagini interiori ha (invece) poco spazio tra gli adulti».

Più che una lamentazione sui buoni tempi trascorsi, in realtà mai esistiti, quella dell’autore è una ricognizione sull’andamento del rapporto con la propria sfera immateriale, in una età dove al ritrarsi nell’individualità corrisponde un generalizzato disinvestimento psichico sia dalla dimensione affettiva che in quella sociale. Mentre l’esperienza emotiva si individualizza, avanza un’età dove la rinuncia alle passioni diventa il suggello di un mondo reificato, nel quale la pace interiore corrisponde ad un’emotività generalizzata e gratuita, senza reale affettività. Si tratta di quel complesso di atteggiamenti per cui all’identificazione profonda si sostituisce il clamore del momento, all’empatia il narcisismo.

Dimissioni dalla vita

Stati di coscienza deboli poiché non riescono più a confrontarsi con l’iceberg capovolto della pulsionalità profonda. Non è un caso, allora, se la nozione stessa di conflitto, e con essa di società, stiano subendo una torsione negativa, essendo l’uno e l’altra sostituiti dalla memoria come narrazione di una sorta di obbligazione collettiva al ricordo di qualcosa di perduto per sempre. Zoja parla, in alcuni passaggi, di «dimissioni dalla vita». Una nostalgia del nulla sembra così sostituirsi al desiderio del futuro. Passioni sì, quindi, ma tristi perché basate sulla destrutturazione del soggetto, non sul progetto in divenire.