Andrea Carraro è un autore tra i più fedeli a una idea di letteratura realistica rinnovata di romanzo in romanzo. I suoi primi libri, più gergali, d’impasto neo-pasoliniano, già indagavano ciò che più sta a cuore a questo scrittore, cioè il gorgo sociale, quel lato oscuro, doloroso e tragico, confinato nell’inconfessabile interiore di ognuno di noi. Nei libri di Carraro c’è sempre qualcuno che si porta o è portato ai limiti, sia essa una donna stuprata dal «branco», un figlio tormentato dalle violenze di un padre padrone, la donna straniera ridotta a schiavitù, l’impiegato vessato dal mobbing di quello che è un fetente «sorcio» aziendale, la gente normale che travolge e uccide un uomo, e poi scappa.

CIÒ CHE GLI INTERESSA di più è sviscerare una sorta di nuovo e violento darwinismo sociale, che ricompone in uno stile di verismo contemporaneo fatto di una lingua ruvida e selvatica, perfettamente aderente al mondo che vuole rappresentare.
Anche il suo nuovo romanzo, Sacrificio (Castelvecchi, pp.170, euro 17,50), sta in questo solco. Giorgio, il protagonista, come molti eroi tragici e fragili di Carraro, direttore editoriale di una piccola casa editrice romana, è alle prese con la figlia ventenne eroinomane Carolina, che uscita dalla comunità terapeutica torna a vivere con lui, separato dalla madre, che nel libro resta un personaggio di secondo piano, fatuo e sfuggente; ma il disagio della ragazza presto si lega a quello del genitore in una sorta di vaso comunicante genetico e culturale, prima ancora che corporale e spirituale. Quello che all’inizio sembra il centro nevralgico del romanzo, cioè le storie disadattate di un’adolescente e il suo male di vivere, raccontate a volte in modo un po’ convenzionale, presto lasciano il posto al protagonista e alla biografia generazionale di un uomo che ha affabulato nel sound e negli immaginari nevrotici, liberatori e autodistruttivi degli anni ’70, di cui il libro è pieno di riferimenti musicali ossessivamente filologici, dai Doors a Lou Reed, da David Bowie ai Velvet Underground.

ECCO CHE COME in molti libri dell’autore romano il mondo psicotico del protagonista prende il sopravvento su tutto il resto, tra un presente e i flash back della sua storia di formazione generazionale di «borghese piccolo piccolo» ormai segnato da un fallimento esistenziale al quale non vuole opporre più nessuna resistenza. «Ho fallito in tutto, come marito, come padre, forse anche come cristiano», confessa disperato in un passo a un sacerdote.
C’è sempre una tensione che cresce nei libri di Carraro e, inevitabilmente, come in un fiume carsico sotterraneo, sottotraccia, dopo una lunga, estenuata preparazione, il flusso narrativo e concentrico arriva all’acme, il momento di cruda verità che svela prepotente la natura dei personaggi fissati dentro la loro piccola epica esistenziale. Puntualmente succede anche in questo libro con la scelta insensata di Giorgio di bucarsi e diventare eroinomane per «incarnare» la sofferenza di sua figlia, alla quale più volte dice che darebbe la vita per salvarla, in una emulazione quasi mistica, aspettando un segno divino di misericordia.

Lo scrittore attentamente registra i movimenti della lenta caduta, il disfacimento mentale, quello fisico del suo personaggio-uomo, l’andare alla deriva senza rimorsi, il bere smodato e la cupa ricerca della polvere in ambienti sordidi, popolati da un sottomondo di squallidi individui, quasi compiaciuto dall’immolarsi e dando a tutto questo un senso mistico autodistruttivo ma anche eroico, di sacrificio, appunto, che porterà coraggiosamente fino alle estreme conseguenze.