Il 2015 per la provincia di Caserta è terminato con la dichiarazione di dissesto. Dopo un anno e mezzo, l’intervento straordinario della regione ha scongiurato la chiusura di tutte le scuole superiori di Terra di Lavoro, resta sul tavolo il tema delle istituzioni culturali provinciali. Gli atenei campani, a partire dall’Università casertana Luigi Vanvitelli, hanno diffuso una petizione per sostenere il Museo di Capua: attualmente lavorano sei dipendenti su una pianta organica di venti, in sofferenza i servizi esterni a partire dalle pulizie. La provincia dovrebbe occuparsi dei costi di funzionamento della struttura mentre la regione sostiene la gestione, incluso il personale, con un contributo di circa 235mila euro l’anno.

NON BASTA per far marciare il museo. Il tema dei fondi da reperire è legato alla definizione di un nuovo progetto che leghi Capua al suo territorio, a partire dalla Reggia di Caserta. Perché quello che contiene Palazzo Antignano è la storia di Terra di Lavoro.
Le campagne di scavo hanno permesso, a partire dall’Ottocento, di riconnettere le origini (Osci, Etruschi, Sanniti, Romani) con i monumenti e le testimonianze dei Longobardi, Normanni, Svevi fino agli Angioini e Aragonesi. Il Museo di Capua venne aperto al pubblico nel 1874 proprio per custodire e raccontare la storia del casertano. La collezione attraversa le epoche: dal lapidario Mommsen si passa ai sarcofagi e poi ai vasi e bronzi, la collezione di monete e terracotte; quindi si arriva al Medioevo con i marmi romanici e poi le sculture federiciane e rinascimentali, la pinacoteca, le iscrizioni longobarde, le ceramiche. E poi gli archivi storici del comune di Capua (dal XIV secolo) e dell’Ospedale dell’Annunziata (dal XV secolo). Ma a rendere unico il museo è la collezione delle Madri.

Fu una campagna di scavo illegale nel 1845 a rivelarle per la prima volta, trent’anni dopo le ricerche ufficiali: in prossimità dell’antica Capua vennero alla luce numerose statue in tufo, ognuna riproduceva una donna seduta con uno o più bambini tra le braccia, fino a dodici, prova che il sito ospitava un luogo di culto. Una sola statua era differente dalle altre: nella mano destra un melograno e nella sinistra una colomba, fecondità e pace, era la dea tutelare del tempio dedicato alla maternità, la Mater Matuta.

ANTICA DIVINITÀ italica dell’aurora e della nascita, era circondata dalle altre matres: offerte propiziatorie o ringraziamenti frutto dell’arte della popolazione locale. Le sculture votive, oltre 130, sono state datate dal IV al I secolo a.C. ma alcune sono sicuramente di epoche precedenti. La grande dea madre potrebbe essere anche Iovia Damusa o Bona Dea, persino Cerere, dea della crescita. Parte del santuario anche la scultura di una sfinge accovacciata sulle zampe posteriori con le ali semipiegate. La petizione chiede al ministero dei Beni culturali e alla regione «risorse finanziarie sicure, un organico stabile, una direzione scientifica all’altezza dell’enorme valore culturale del museo».