Ogni morte è una perdita, è ovvio. Ma talune morti determinano una privazione sul piano della conoscenza, della riflessione personale e dei conseguenti interrogativi, tale da farle percepire come una improvvisa amputazione.

Determinata da quella consuetudine che ti fa accogliere il contributo, scritto, parlato o diffuso anche sui social, di un interlocutore amico e arguto come un suggerimento di riflessione quotidiana, destinata a perpetuarsi sempre.

Questo è stato per me, per molti, per i lettori del manifesto e soprattutto per quella comunità che conduce l’esperienza di questo giornale, la morte di Benedetto Vecchi.

Il venir meno della selezione dei temi su cui riflettere, con l’occhio attento a movimenti e insorgenze intellettuali e politiche qua e là apparse, spesso anche tramontate, nei territori geografici e conoscitivi del nostro presente.

Il venir meno di una critica serrata a un qualche libro di quelli che spesso non compaiono nei banconi d’ingresso di una nostra libreria.

Il venir meno di un post di Ben Olds, pungente e mai astioso, pronto a difendere storia e percorso di questo giornale.

Il venir meno di una telefonata su un libro o su un titolo che solo pochi cultori come lui sapevano dove rintracciare.

Sono tutti questi «venir meno» a determinare la sensazione di cancellazione di una risorsa del proprio pensiero. E a determinare, appunto, l’impressione di qualcosa che sia stato amputato a tutti noi. Certamente ai suoi cari affetti, ai compagni con cui ha costruito quotidianamente il giornale, vivendolo come parte di sé, anche nei suoi organismi amministrativi – apparentemente distanti dalla sua cultura della parola – ma anche a chi da collaboratore sapeva che a lui poteva riferirsi. Non per ottenere una chiarezza rassicurante, ma un approfondimento del senso meno effimero della riflessione.

Buon viaggio Benedetto, non con rassegnazione, ma con un’amarezza e un dolore densi però di impegno.