La Crimea è tornata d’attualità a seguito del colpo di Stato di «Euromaidan» del novembre 2013. Dopo una «guerricciola» con il suo corredo di morti e distruzioni, la Penisola («donata» all’Ucraina, nel 1954, da un Kruscev in preda all’alcol) è ritornata, nel marzo 2014, alla «Grande Madre Russia», con un referendum, valido a dispetto delle contestazioni dell’Occidente.

Non è stata la prima guerra in una Penisola di poco più di 26 mila km quadrati e circa due milioni di abitanti. La sua posizione strategica, al confine tra imperi in eterna lotta per la supremazia, l’ha esposta a occupazioni, incursioni, devastazioni. Per Orlando Figes, autore di Crimea. L’ultima crociata (Einaudi, pp. XX-531, euro 35), la componente base della sua storia è lo scontro fra religioni: una tesi forte, che forse non trova adeguato riscontro, ma l’autore conferma la propria capacità affabulatoria in questo tomo, straripante di dati, nomi, cifre, ipotesi: il lettore rischia di smarrirsi, come del resto sembra capitare allo stesso Figes, il quale ci fornisce però un quadro utile a comprendere le componenti variegate di una vicenda intricatissima. Lo scrittore, già noto per discusse incursioni nella storia russa, si rivolge a un fatto preciso, che contiene in sé la trama di un paio di millenni, tra le steppe siberiane, le montagne caucasiche, le sponde mediterranee e l’Europa delle Grandi Potenze.

La dubbia frontiera religiosa

Il conflitto del 1853-55, la «guerra di Crimea», segnò la fine delle ambizioni dell’impero russo, come confermò mezzo secolo dopo la sconfitta col Giappone. Analogamente, l’Impero Ottomano, teoricamente tra le potenze vittoriose, diede conferma della propria fragilità, di cui qualche decennio più tardi l’Italia di Giolitti approfittò per la «conquista» della Tripolitania e Cirenaica. Sebbene Figes distribuisca le responsabilità, è nondimeno la Russia che mette sul banco degli imputati, usando una chiave interpretativa suggestiva, e, ripeto, discutibile: la religione; tanto più che sembra assecondare un senso comune che sta facendo perdere di vista le componenti economiche e geopolitiche dei conflitti del nostro tempo, quasi che la religione possa essere assolutizzata come «la causa» delle guerre. Sarà poi così vero che, come scrive Figes, in Russia la «frontiera religiosa era da sempre più importante di qualsiasi frontiera etnica?».
Che le responsabilità primarie nello scoppio della guerra siano di Nicola I, che invase Moldavia e Valacchia, sotto la sovranità ottomana, non v’è dubbio; ma la causa scatenante non è automaticamente la causa politica: il ruolo delle potenze imperialiste, Francia e Gran Bretagna, rimane essenziale; e la Turchia non era da meno, pur nella sua declinante forza: per fermare lo zar, si schierò con esse: il conflitto ebbe inizio con l’assedio della fortezza di Sebastopoli (questa è la ragione per cui molte città la ricordano nella toponomastica), principale porto russo sul Mar Nero. Londra e Parigi non ottennero la collaborazione dell’Austria (che nel 1914 troveremo alleata della Turchia e della Germania, contro la Triplice Intesa), mentre volle farsi coinvolgere il Piemonte sabaudo che mandò 15 mila uomini, il che sarebbe poi servito a Cavour a porre la questione dell’Unità italiana al successivo Congresso di pace di Parigi. Fu la caduta di Sebastopoli, a indurre il nuovo zar Alessandro II all’armistizio.

Emerge dalla ricostruzione di Figes la vastità del sentimento antirusso in Europa, il che rende difficile spiegare la successiva alleanza proprio con il temuto-odiato «Orso russo» contro l’Austria e la Germania: nel continuo valzer delle alleanze, dominano l’arroganza e la stupidità dei gruppi dirigenti nazionali, non importa se sotto le insegne della democrazia o dell’autocrazia, e soprattutto il disprezzo per le popolazioni che rappresentavano. Come sarebbe accaduto nel 1914, anche allora la guerra nacque da un gioco di risiko, in cui ciascun attore tirava la corda contando sulla sua resistenza, lanciando messaggi roboanti, da una parte, rassicuranti dall’altra. La guerra è frutto anche della insipienza e della irresponsabilità delle classi dirigenti. Nessuno voleva la guerra, ma tutti erano pronti a usare la minaccia delle armi, fino a che il precarissimo equilibrio saltò. A farne le spese furono, naturalmente, le masse anonime, specialmente contadine, il nerbo degli eserciti: quello russo era di gran lunga il più grande del mondo, con oltre un milione di fanti, 250 mila irregolari, 750 mila riservisti. Ma era un esercito di scarsa potenza, e gli stessi suoi uomini erano in condizioni pessime, per la denutrizione cronica dei mugiki, ancora legati alla gleba da un servaggio che sarebbe stato poi abolito da Alessandro II dieci anni dopo. I loro «padroni» per evitare di impoverire le lavorazioni inviavano al reclutamento i soggetti con minori capacità, tanto che ne veniva respinto un terzo. Inoltre, come avrebbe notato Karl Marx, con osservazione estensibile ben al di là dello specifico, i principali meriti erano la «stolida obbedienza» e la «pronta servilità», congiunta «all’accuratezza nello scoprire una pecca nei bottoni o nell’asola dell’uniforme».

Pennacchi e galloni

Non era poi tanto meglio l’esercito di Sua Maestà Britannica, mal equipaggiato, mal nutrito e mal organizzato: la famosa carica di Balaklava immortalata nella pittura, nella letteratura e nel cinema, rappresentò un inutile gesto di eroismo disperato. Eppure fu proprio la Crimea a cambiare il rapporto degli inglesi con l’esercito, sottraendolo all’egemonia dell’aristocrazia, screditata dalla pessima prova data in guerra: in luogo del gentiluomo «tutto pennacchi e galloni», l’eroe divenne il soldato di truppa, un anonimo figlio del popolo. Il che contribuì a far uscire di scena i ceti aristocratici favorendo l’ascesa delle classi medie, anche grazie all’informazione fornita dalla stampa. Nel teatro di quella, lungi dall’essere un conflitto minore, fu la prima guerra moderna della storia, nacque la figura del corrispondente, che, armato di taccuino e penna, si reca sul luogo e racconta ciò che vede. Fu il britannico William Russell il primo, documentando il conflitto, contro la censura degli Alti Comandi: corrispondente del Times, egli raccontò la realtà di quel macello all’ingrosso, non lesinando critiche alle gerarchie militari. E in tal modo si pose anche il dualismo tra la verità atroce e spesso oscena del massacro, e la rappresentazione edulcorata ed eroicistica diffusa sul piano politico.

Anche da tale punto di vista, che sia stata o no il teatro di una «crociata», la Crimea fu senza dubbio una prova generale del grande massacro che sarebbe cominciato sessant’anni dopo.