Come accade durante tutte le manifestazioni sportive internazionali, anche i recenti mondiali di calcio sono stati l’occasione per ascoltare l’ormai consueta rassegna di inni nazionali più o meno celebri e celebrati. Non che la cosa di per sé desti grandi entusiasmi. Verrebbe da dire che gli inni nazionali, spesso connotati da un forte spirito non solamente patriottico, ma anche aggressivamente nazionalista, stanno alla musica come le leggi alla letteratura. A seconda dei casi si possono ascoltare composizioni molto coinvolgenti, ma il più delle volte ci si imbatte in brani eccessivamente didascalici, retorici o marziali. Eppure molti inni hanno storie musicali piuttosto curiose e non di rado si sono incrociati con la musica pop e rock.

STELLE E STRISCE

L’inno degli Stati Uniti d’America, Star-Spangled Banner, è senza dubbio l’esempio più noto di un canto patriottico che ha avuto incarnazioni in versioni moderne e riedizioni originali. A chiunque viene in mente la straordinaria rilettura strumentale che Jimi Hendrix ne fece come atto conclusivo del Festival di Woodstock nel 1969. Con la sua Fender il chitarrista di Seattle trasformò il «national anthem» in un grido di dolore lancinante in cui la retorica del «Vessillo adorno di stelle» si trasformava in una tempesta sonora. L’epica patriottica diventava un caos sonoro che richiamava il rombo dei B-52 americani che in quegli anni tempestavano il Vietnam di bombe. Hendrix eseguì l’inno a conclusione della sua performance (la più lunga della sua carriera) nel corso di un torrenziale medley. Era la mattina del 18 agosto 1969. Il chitarrista aveva chiesto espressamente di poter essere l’ultimo artista della kermesse. Avrebbe dovuto suonare a mezzanotte, ma i tempi si dilatarono trasformando la sua esibizione nel più celebre matinée rock della storia. Poco importa se gran parte del pubblico fosse già andato via. Ovviamente un’edizione così poco ortodossa dell’inno creò non poche polemiche. Hendrix, un ex militare paracadutista, non si abbassò a discutere della questione, rispondendo a chi gli chiedeva conto delle critiche: «Non ho idea. Io l’ho solo suonato. Sono americano. Ho suonato l’inno. Me lo facevano suonare a scuola».

Ma ancor prima di Hendrix, un’altra performance dell’inno aveva scandalizzato i benpensanti, quella del cantante portoricano José Feliciano. In occasione di una partita delle World Series di baseball del 1968, l’artista rielaborò il brano in una chiave folk, in sintonia con le canzoni di protesta di quegli anni. In molti gridarono al tradimento, ma quella versione, emozionante e sofferta, venne stampata su un 45 giri che per la prima volta portò lo Star-Spangled Banner in classifica. L’inno statunitense, adottato ufficialmente nel 1931, fu scritto in forma di poesia nel 1814 da un avvocato del Maryland, Francis Scott Key. I versi si riferivano in termini molto retorici a un episodio bellico legato al fronte americano delle guerre napoleoniche, l’assedio da parte delle truppe britanniche di Fort Henry nel 1812. La bandiera era rimasta issata sotto le bombe, simbolo della «terra dei liberi e dei coraggiosi». La poesia non fu scritta pensando alla musica, ma fu adattata successivamente a una famosa canzone popolare scritta però dai rivali britannici. Il brano era To Anacreon in Heaven noto anche come The Anacreontic Song. Non era una canzone particolarmente edificante. Era stata composta nel 1778 da John Stafford Smith, dedicata ad Anacreonte, poeta greco noto per le sue poesie sull’amore e sul vino e adottata come canzone ufficiale dal licenzioso club per soli uomini «La Società di Anacreonte» che si dedicava allo «spirito, all’armonia e al dio del vino». Una sorta di inno goliardico come il nostrano Gaudeamus igitur. La melodia divenne popolare e venne adattata poi, non senza qualche forzatura metrica, ai versi di Star-Spangled Banner. Una canzone da brindisi diveniva così un invito all’amor patrio. Oggi di quel poema si canta solo una strofa. È meglio così per non incappare in alcuni versi un po’ imbarazzanti. L’autore Francis Scott Key era infatti uno schiavista. Per lui, come recita un suo scritto, i neri erano «una razza di persone inferiori che rappresentano il male di ogni comunità». La penultima strofa ha un verso che recita «nessun rifugio salverà i mercenari e gli schiavi dal terrore della lotta». Al conflitto in terra americana, infatti, avevano partecipato, al fianco degli inglesi, anche alcuni neri liberati.

Il tempo ha cancellato questa macchia e anzi, molte delle riletture più belle mai fatte dell’inno appartengono ad artisti afro-americani. Indimenticabile la versione soul che Marvin Gaye ne fece nel febbraio del 1983 per l’All Star Game della NBA. L’interpretazione però più virtuosistica e ortodossa appartiene a Whitney Houston che cantò l’inno prima del Super Bowl del 1991. Era un momento di grande afflato patriottico per gli Usa, ai temi impegnati nella prima Guerra del Golfo, la Houston, accompagnata dalla Florida Orchestra, commosse il paese con una versione impeccabile e straordinariamente potente. Si scoprì dopo che la voce che sentirono i telespettatori era stata però pre-registrata, i tecnici avevano ritenuto impossibile una buona resa live di canto e orchestra in uno stadio tutto esaurito.

Star-Spangled Banner rimane un brano affascinante, ma infido. Estendendosi su due ottave è estremamente difficile da cantare e nel novero delle sue esecuzioni se ne ricordano di disastrose. Tra queste quella rauca di Steven Tyler alla 500 Miglia di Indianapolis nel 2001, quella steccata di Christina Aguilera al Super Bowl del 2011 o quella sgangherata sexy-jazz di Fergie dei Black Eyed Peas all’All Star Game di quest’anno. La peggiore di sempre però appartiene a Carl Lewis, supercampione olimpico che nutriva velleità da cantante. Le sue ambizioni canore vennero sepolte proprio da un’esibizione del National Anthem prima di una finale NBA del 1993. Il re della velocità sbagliò più volte le note e incespicò sul testo, scatenando l’ilarità e i fischi del pubblico.

IDEALISTI

L’inno italiano è accomunato quest’anno allo Star-Spangled Banner dal fatto che entrambi non si sono ascoltati ai mondiali di calcio, visto che anche la nazionale Usa. è rimasta a casa. Noto come Fratelli d’Italia si intitola in realtà il Canto degli italiani. L’autore del testo è il patriota genovese Goffredo Mameli a cui oggi viene affidata la completa paternità della composizione anche se la musica fu scritta dal musicista Michele Novaro, anch’egli di Genova. Il brano fu composto nel 1847. Mameli, ai tempi uno studente idealista, aveva solo vent’anni. Sarebbe morto due anni dopo difendendo la Repubblica Romana. «L’immediatezza dei versi e l’impeto della melodia – si legge oggi sul sito del Quirinale – ne fecero il più amato canto dell’unificazione, non solo durante la stagione risorgimentale, ma anche nei decenni successivi. Non a caso Giuseppe Verdi, nel suo Inno delle Nazioni del 1862, affidò proprio al Canto degli Italiani – e non alla Marcia Reale – il compito di simboleggiare la nostra Patria, ponendolo accanto a God Save the Queen e alla Marsigliese. Fu quasi naturale, dunque, che il 12 ottobre 1946 l’Inno di Mameli divenisse l’inno nazionale della Repubblica Italiana».

L’amor patrio non deve far dimenticare che si tratta di una canzone bellicosa, scritta da un giovane che si apprestava a combattere per i propri ideali. La frase «siam pronti alla morte» oggi fa un po’ ridere cantata da un calciatore, per Mameli era una promessa tragica e solenne. Come per tutti gli inni se ne ricorda solo una strofa, ma il testo completo è un compendio di storia patria, ricordando le ribellioni contro i dominatori stranieri: i Vespri siciliani del 1282, la battaglia di Legnano contro il Barbarossa e la rivolta di Genova del 1746 scatenata dal giovane Balilla. Anche in questo caso alcuni versi sono stati dimenticati a ragion veduta. L’ultima strofa infatti si accanisce contro i nemici austriaci («già l’Aquila d’Austria, le penne ha perdute»), attacca i russi «cosacchi» e fu per questo censurata dal Governo piemontese. Tra i più celebri critici del canto patriottico ci fu Giuseppe Mazzini che non ne apprezzava la musica a suo dire troppo poco «marziale», a quanto pare avrebbe voluto che Verdi riscrivesse l’intera partitura. In molti nel corso degli anni si sono chiesti come mai un paese di grandi compositori si sia alla fine legato a una melodia scritta da un autore tutto sommato mediocre. Più volte è stata proposta la sua sostituzione con il Va’ pensiero, ma l’adozione, o meglio, l’usurpazione da parte della Lega di Umberto Bossi del coro tratto dal Nabucco e utilizzato dai lumbard come inno ha un po’ messo a tacere i detrattori di Mameli e Novaro.

Ufficialmente il Canto degli Italiani e però l’inno nazionale solo dal dicembre del 2017. Il brano fu adottato senza alcun provvedimento dal primo governo De Gasperi. Più volte il Parlamento ha lavorato a norme che ufficializzassero questa scelta, ma solo la legge 181 del 4 dicembre 2017 ha colmato questo vuoto durato più di settant’anni.

Piuttosto rare da noi rivisitazioni più o meno rispettose del canto ottocentesco. Quella più trasgressiva appartiene senza dubbio agli Elio e le Storie Tese che durante un tour inserirono nella loro scaletta un Fratelli d’Italia interpretato da un pollo di gomma. Nel 2002 la cantante Elisa ne incise una versione gospel per accompagnare le partite della nazionale ai mondiali di calcio di Corea e Giappone. Non mancò la polemica del solito politico di destra che giudicò vergognosa quella «specie di versione rock» (sic!) dell’inno. Più genuinamente rock è stata la versione di Eugenio Finardi suonata al Concertone del Primo maggio 2011. Se qualcuno continuasse, un po’ come Mazzini, a non gradire il Canto degli italiani può rivolgersi al produttore disco-dance Giorgio Moroder che ha nel cassetto dagli anni Novanta una sua versione di un nuovo inno che propose all’allora premier Berlusconi in un periodo in cui il componimento di Mameli e Novaro sembrava non incontrare il gusto della neonata seconda Repubblica.

REGINA CENSURATA

L’inno britannico God save the Queen ha una storia assai più lunga. È l’inno più antico del mondo essendo stato scritto nel 1745 (ai tempi però si cantava «King» poiché era rivolto al re) sulla base forse di melodie preesistenti. Essendo dedicato alla corona britannica, nel corso degli anni è stato anche imposto ai vari possedimenti coloniali dell’impero inglese. Anche questo canto nazionale ha avuto l’onore di riletture e rivisitazioni autorevoli. I Beatles ne eseguirono una loro versione nel famoso concerto sul tetto della loro casa discografica nel 1969. Sulle stesse note Hendrix nel corso della sua esibizione all’Isola di Wight riprovò la magia dell’anno prima a Woodstock. Nella discografia rock compare inoltre nell’album di debutto dei Gentle Giant del 1970 e in A Night at the Opera dei Queen che chiudevano con il pezzo anche i loro concerti mentre Freddie Mercury attraversava il palco con corona e mantello. In catalogo anche un’edizione suonata con dei kazoo dai Madness e una con un tripudio di riff di chitarre elettriche ad opera di Neil Young e i Crazy Horse incisa per l’album Americana del 2012. Ma la God Save the Queen più celebre della storia del rock non è l’inno ufficiale, ma la canzone di protesta che i Sex Pistols pubblicarono nel maggio 1977 in occasione del Silver Jubilee di Elisabetta II. Il brano, che invece di augurare lunga vita alla sovrana denunciava il «regime fascista che ti ha reso un imbecille», fu censurato dalle radio del regno, ma entrò nella storia diventando un inno non di una nazione, ma di un popolo. Quello del punk rock.

Esiste tuttavia un paese il cui il brano che rappresenta la nazione è stato scelto grazie a un gruppo rock. È la Slovenia. L’inno dei nostri vicini di casa è una poesia scritta nel XIX secolo da France Prešeren. L’autore, oppresso da un amore non corrisposto e depresso, divenne un alcolista e dedicò una delle sue poesie più celebri, Zdravljica («Il brindisi»), al vino. I versi dedicati al bere erano inframmezzati da espressioni patriottiche e da visioni di libertà. Quella famosa poesia divenne una canzone popolare alla fine degli anni Ottanta proprio quando il blocco sovietico si stava sgretolando. A riportarla in auge la rock band Lacni Franz, originaria di Maribor, che nel 1987 ne aveva fatto una fortunatissima versione rock un po’ parodistica. Nel 1991 la neonata Slovenia a corto di un inno nazionale non ebbe dubbi e decise che «Il brindisi» era la canzone nazionale più popolare. Il testo venne purgato di ogni citazione enologica e di ogni invocazione alle ragazze slovene. Venne conservata solo la strofa che profetizza la libertà di tutti i popoli.

LA CADUTA DEL MURO

I paesi balcanici nati dalla disgregazione della ex Jugoslavia hanno avuto non pochi problemi con i loro inni nazionali. Il caso più eclatante è quello della Bosnia che ha scelto alla fine degli anni Novanta il proprio inno grazie a un concorso pubblico. Vinse Dusan Sestic un compositore di origini serbo-bosniache, subito tacciato di tradimento dalla Serbia per aver suffragato le ambizioni patriottiche della nazione un tempo sotto Belgrado. Ma il brano di Sestic non piacque neppure alle altre popolazioni dello stato e così Sestic si trovò vincitore e padre dell’inno nazionale, ma per contese e polemiche non ricevette mai il premio di 15mila euro promesso alla composizione vittoriosa. I problemi non sono finiti qui. Nel 2009 qualcuno si accorse che la musica era incredibilmente simile (o meglio identica) al brano musicale che si sente all’inizio del film Animal House di John Landis con John Belushi. La commedia demenziale hollywoodiana, grande successo datato 1978, non era certo un buon esempio di amor patrio. Dusan Sestic, non pagato, boicottato da tutti i gruppi etnici fu così accusato anche di plagio. Ma il suo brano è rimasto il canto ufficiale della Bosnia e anche il simbolo di un paese unito sulla carta, ma perennemente diviso. Plagio o meno Sestic è in buona compagnia. Una delle musiche nazionali più raffinate al mondo è quella dell’inno dell’Uruguay: Orientales, la Patria o la Tumba. Fu composto nel 1846 da Francisco Jose Debali. La sua ricchezza sinfonica non è un mistero. La musica è ispirata alle arie d’opera italiane e in parte è identica a un brano della Lucrezia Borgia di Donizetti che fu messa in scena a Montevideo nel 1841. Di fronte all’amor patrio però anche queste diventano inezie.