«La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima…». Si tratta del singolare incipit di «La passeggiata», testo inaugurale dei Racconti impossibili (Adelphi «Piccola Biblioteca», pp. 202, € 14,00) di Tommaso Landolfi. Il titolo stesso del libro, originariamente pubblicato da Vallecchi nel 1966, si configura come interpretabile in vari modi: l’aggettivo «impossibili» è da ascriversi al contrassegno di un retaggio fantastico o non piuttosto, come viene ventilato nell’ultimo brano «Rotta e disfacimento dell’esercito», a una sorta di impossibilità sottesa al progetto stesso di «raccontare una storia»? Questo interrogativo caratterizza un procedimento linguistico che costituisce un unicum nella vicenda letteraria del nostro Novecento, soprattutto se si consideri la sua dichiarata matrice dannunziana.
È singolare tuttavia che l’opera di questo autore schivo e appartato, che rasentò, come osserva Giovanni Maccari nella postfazione, un autolesionismo derivante da «un’autentica insocievolezza da “uomo del sottosuolo”», possa essere investita dalle stigmate di quella crisi espressiva che i Novissimi rimarcheranno in infinite (e tediose) elucubrazioni di carattere metaletterario e sociopolitico. Ma, nel caso di Landolfi, si tratta della consapevolezza di un’insufficienza linguistica rilevata dall’interno, senza l’ausilio di alcun canone modernista, bensì avventurandosi à rebours, nei meandri stessi della tradizione, anche se in chiave fortemente parodica.
Un esempio calzante delle facoltà stilistiche e mimetiche dello scrittore è rappresentato, appunto, da «La passeggiata», tutto costruito su vocaboli rari e desueti, che saranno scambiati da alcuni critici del tempo per espressioni dialettali o neologismi. Landolfi dimostrerà, nei due testi che vengono proposti in calce al volumetto, che si tratta di parole presenti in un «volgare Zingarelli» e che, come tali, avrebbero dovuto essere identificabili, soprattutto da parte di critici dotati di «un certo fiuto filologico».
I dodici racconti che contrassegnano la raccolta si sviluppano attraverso brevi monologhi o dialoghi serrati tra due o più interlocutori, caratteristica questa che segnerà l’ultima fase della narrativa landolfiana, tutta giocata su un tipo di dialettica riconducibile al tema degli opposti, come il rouge e il noir sopra cui si incaponisce (e si incupisce) il giocatore incallito. Un disincanto di taglio leopardiano è associato a uno humour dai tratti corrosivi che investe tutto e tutti, compresa qualsivoglia attività dello scibile umano: dalla scrittura, considerata il refugium peccatorum dei falliti, alla scienza, di cui si adombra la parzialità di vedute. Splendidi un paio di spunti: «Fulgide mete», in cui, sulla falsariga di Sade e Lautréamont, l’autore fa il panegirico della bestemmia («La bestemmia è un dovere della persona civile»), ribaltando parecchi stereotipi e invitando ad associare alla divinità gli epiteti più ingiuriosi; «Alla stazione», dove viene descritto l’incontro tra uno scrittore e un passeggero che sfocerà nel resoconto inverosimile di quest’ultimo, fatto allo scopo di vendicarsi di storie lette senza alcun costrutto.
L’opera variegata di Landolfi ha sempre prestato il fianco al tema dell’ambiguità, della duplicità di intenti e vedute, non disdegnando una lettura di tipo polisemico che si articola attraverso un corollario di narrazioni paradossali. Dagli esiti fantascientifici di S.P.Q.R., Quattro chiacchiere in famiglia e Un concetto astruso, già prefigurati in racconti precedenti e nel romanzo breve Cancroregina (1950), si passa alle atmosfere grottesche e surreali, tra serio e faceto, di Un destino da pollo o A rotoli, dove fa capolino un raziocinio deduttivo che richiama alla mente certi svolgimenti narrativi tipici di Poe. Una delle ricorrenti tecniche landolfiane è infatti quella di rovesciare i luoghi comuni al fine di creare situazioni parossistiche in grado di «spiazzare» anche il lettore più smaliziato. D’altronde in un significativo passaggio, l’autore osserva, con buona dose di autoironia: «La solita storia infine: chi così dice di non aver niente da dire è uno a mezza strada tra il silenzio e l’espressione, un infelice cui il silenzio gioverebbe, ma che non sa conquistarsi nemmeno il silenzio».