Un weekend postmoderno di Tondelli era una mappatura dell’Italia già apparentemente stremata dal fumo profumatissimo e infingardo degli anni Ottanta. Un’architettura molto complessa, come scriveva Fulvio Panzeri nelle pagine di commento che chiudevano il libro, in cui si aprivano città, stanze, luoghi, geografie, paesaggi come scenari per frotte di persone e personaggi che sembravano chiedere, senza darlo a vedere eppure con forza, identità solida alla penna dello scrittore.
Leggere la 16/ma Quadriennale di Roma (Palazzo delle Esposizioni, fino all’8 gennaio 2017), che riprende la modalità cartografica tondelliana intitolando Altri tempi, altri miti la mostra, facendosi condurre dai dieci anni di lavoro culturale racchiusi in quel libro, è un modo interessante di visitarla.

Dieci sezioni sono ospitate al Palazzo delle Esposizioni, ognuna curata da diversi studiosi (una sezione vede un tandem di curatori) quasi tutti nati proprio quando quel libro prendeva forma. E proprio la forma è un elemento interessante da valutare per la Quadriennale. Scrive Tondelli in una lettera intorno a Un weekend: «Si tratta di trovare una forma, non perché la macchina narrativa funzioni, ma per identificare il livello, la natura del testo. Le componenti, nella progettazione di un libro, sono sempre molte. Io ho bisogno di una struttura precisa».

Spostare queste righe alla lettura della opulenta mostra romana evidenzia esattamente l’assenza di una struttura, c’è tutto, c’è troppo, ci sono molte opere interessanti, c’è il nuovo, c’è il noto, c’è il superfluo, c’è la sorpresa, c’è lo scontato, c’è la citazione. Un mondo insomma, il mondo, ma senza che il visitatore uscendo ravvisi quale sia la struttura che sorregge questi tempi e questi, possibili, miti.

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Se l’intento era quello di mettere in mostra il fatto che il rapporto tra mondo e arte, anche limitatamente a una minuscola porzione qual è l’Italia, è un costante e aperto fluire di infinite idee, di innumerevoli fatti, di incalcolabili punti di vista, non si può dire che non sia più che riuscito. E la volontà era già espressa nella selezione dei curatori svolta da una giuria esterna interdisciplinare sulla base di una call for project.

Non si vuole certo sostenere la necessità di una progettualità che irreggimentasse o di un’unica mente ordinatrice, anzi, vale forse la pena ricordare la X Biennale che si articolò in cinque anni, cinque mostre, infiniti confronti, molte proteste, l’organizzazione di una Controquadriennale e la comprensione di cosa sorreggesse e determinasse tutto questo gran movimento. Non si tratta di nostalgie, ma di avere il desiderio, che è tutto di questi tempi, di far intendere con chiarezza che anche – e forse soprattutto – nello stato di crisi di sistema e di acquiescenza o sbadataggine culturale che insiste nelle nostre istituzioni culturali ci sia intensa, lucida e intelligente produzione artistica.

Se la missione della Quadriennale è stata sempre quella di offrire un panorama del fare arte in questo paese in modo non autoreferenziale e non riservato solo agli addetti ai lavori, anche la giusta esibizione di un flusso intenso e vivace sarebbe dovuto essere meno caotico e meno bulimico per far risaltare la vera, bellissima qualità di questa quadriennale e cioè l’attuale, dolorosa impossibilità di una coerenza.
L’idea di dieci sezioni diverse, ognuna in sé densa di sensi e spessi interrogativi, rimane un’idea eccellente se si fosse potuto intendere che l’elemento più importante di una dinamica culturale di cui l’arte è il fulcro è il confronto e il reciproco misurarsi e delimitarsi, accettando il prezzo di perdere un pezzo di significato per poterne acquisire molti altri, coraggiosamente collettivi.

Forse un eccesso di opere, tra cui molte belle e importanti, e un allestimento che non perdona la distrazione, o forse la sollecita, cancella questo proposito e ottiene un effetto sicuramente non voluto, che risaltino cioè i più noti, i più famosi, i più «rumorosi».
Un sovraccarico di sensi che crea cortocircuito intorno alla tondelliana natura del testo, generando una sorta di mostro inoffensivo, che può piacere molto, può essere anche bello, ma pur sempre inoffensivo rimane.