Due miliardi di tonnellate è la quantità di rifiuti che un mondo sempre più popolato produce ogni anno. Una quantità enorme destinata a crescere ancora fino al 70% nel 2050.

Simbolo di questa folle corsa a sommergere il pianeta di rifiuti è la plastica, materiale nato per durare nel tempo e finito per essere utilizzato nei prodotti usa-e-getta. Nel 2019 ne sono state prodotte globalmente 368 milioni di tonnellate. Nei Paesi dell’Unione Europea è in leggera diminuzione, ma continuiamo a produrne ancora troppa (58 milioni di tonnellate l’anno, di cui il 40% per imballaggi) e facciamo fatica a smaltirla: per combattere il fenomeno è stata introdotta la Plastic Tax e con la Direttiva 2019/904 sono stati banditi piatti, posate e cannucce di plastica per eliminare l’usa-e-getta e promuovere un approccio circolare ai consumi.
Ma queste misure hanno dovuto fare i conti con l’attuale pandemia. Il biennio 2020/21 doveva segnare la svolta nella lotta ai rifiuti di plastica in natura, ma, come spiega il recente documento del Wwf Italia La lotta al CoViD frena quella all’inquinamento da plastica, l’emergenza sanitaria ha reso ancora più difficile questa sfida per l’enorme problema delle mascherine.

Realizzate in fibre di plastica e usate ovunque per contenere i contagi, ne consumiamo 7 miliardi ogni giorno a livello globale, 900 milioni nella sola Unione Europea: in peso circa 2700 tonnellate che, quando va bene, finiscono tra i rifiuti, a volte purtroppo in natura. Impossibili da riciclare perché costituite da plastica composita e potenzialmente infette, la loro dispersione sta acuendo il dramma dei rifiuti plastici che inquinano gli ecosistemi marini e terrestri. In acqua, le mascherine tendono a galleggiare, ma ne esistono di più pesanti che affondano o restano sospese a tutte le profondità finendo per essere ingerite da pesci, tartarughe, mammiferi marini e uccelli. Dopo poche settimane nell’ambiente, si frammentano in microfibre che possono accumulare e rilasciare sostanze chimiche tossiche e microrganismi patogeni. Ma la pandemia sta avendo effetti negativi anche sulle abitudini di acquisto: se prima si stimava intorno al 40-45% il consumo di prodotti confezionati rispetto allo sfuso, con la pandemia si è arrivati al 60%. Il 46% delle persone che prima prediligeva lo sfuso, ora acquista prodotti imballati ritenendoli più sicuri da contaminazioni, sebbene ad oggi non sia stato segnalato alcun caso di trasmissione del virus attraverso il consumo di alimenti.

Le chiusure hanno poi stimolato gli acquisti online e con essi gli imballaggi plastici dei prodotti e dei cibi consegnati, aumentati in media del 56%. Il monouso (spesso in plastica) è stato adottato anche nei bar e nei ristoranti obbligati al take away, mentre a favorire una maggiore produzione di plastica ha contribuito anche il drastico calo del prezzo del petrolio, per il crollo della domanda, che ha reso meno vantaggioso riciclare materiali plastici.

La produzione e il consumo di tutta questa plastica monouso aggraveranno gli impatti ambientali e climatici per cui ciò che si è dimostrato necessario per la salvaguardia della nostra salute avrà un caro prezzo per l’ambiente: se non vogliamo far seguire una pandemia di plastica a quella sanitaria gli obiettivi di riduzione di plastica monouso devono essere mantenuti agendo subito in maniera decisa e senza tentennamenti.