Molti giustamente hanno condannato le parole di apprezzamento che Mario Draghi ha usato nei confronti delle autorità libiche per il salvataggio di vite umane nel Mediterraneo (per una lettura complessiva del problema libico, cfr. Tommaso Di Francesco, “il Manifesto”, 7 aprile). Come se tuttora quei porti non fossero marchiati “non sicuri” perché i “salvati” sono di regola destinati a campi di detenzione, ove le organizzazioni umanitarie dell’ONU  hanno accesso limitato o inesistente, proprio a causa delle atrocità che vi sono commesse. Lo stesso Draghi ha invertito la rotta in una successiva conferenza stampa in cui ha asserito di avere chiesto ai suoi interlocutori libici di chiudere quei campi. Immagino con molta discrezione, perché la partita in cui egli s’impegna è quella delle presenze economiche in Libia.

In realtà Draghi ha ereditato il problema dei salvataggi mediterranei dai governi che lo hanno preceduto, a partire da quello presieduto da Renzi, con delega di Minniti ai servizi segreti. La vera responsabilità del nostro paese, tutto intero, compresi i pochi rari nantes che non hanno saputo far sentire tempestivamente la propria voce dissenziente, è quella di avere consentito ai propri rappresentanti di stimolare e sostenere  la costituzione di questi campi di prigionia, trasformando scafisti in guardiani violenti, e una pressoché inesistente guardia costiera libica in squali a caccia di carne umana. È questa la semplice e brutale realtà che stenta a farsi strada, anche a quattro anni di distanza, pur in presenza di un dibattito senza precedenti, non a caso innescato dai soprusi subiti da alcuni giornalisti e, di riflesso, dalla libera ricerca dell’informazione (cfr. Domenico Gallo, I governi passano l’onta resta in “Chiesa di tutti chiesa dei poveri”, 11 aprile).

Si è diffusa la giusta condanna delle intercettazioni di giornalisti a seguito dell’inchiesta della procura di Trapani contro una nave ong, impegnata nel salvataggio di migranti (cfr., ad esempio, Vladimiro Zagrebelsky, “La Stampa”, p. 1, 6 aprile), confermata da una sentenza della Corte Europea dei diritti umani secondo cui questi ed altri casi costituiscono delle violazioni del vigente diritto internazionale. (cfr. Marina Castellaneta, “Weekly Newsletter”,  9 aprile, sentenza Sedleska contro Ucraina). Gli interrogativi cruciali che si pongono sono almeno due. Quale autorità, al di là del pubblico ministero di Trapani, ha ordinato e gestito le intercettazioni di una schiera di giornalisti tutti impegnati a indagare non sullo specifico atto processuale ma, più in generale, sui destini dei migranti provenienti dalla Libia e diretti verso l’Italia o altri approdi mediterranei?

S’ipotizza il ruolo della centrale di polizia di Roma o, addirittura, di Marco Minniti la cui nomina a ministro dell’interno coincide con l’inizio delle intercettazioni contestate. Da cui le sue imbarazzate risposte a Paolo Griseri (cfr. “La Stampa”, 7 aprile) che sottacciono il suo ruolo di sottosegretario di stato con delega ai servizi segreti nel precedente governo Renzi. In secondo luogo, qual’era lo scopo di queste palesi violazioni della privacy inerente alla protezione delle fonti di cronaca? A questo proposito, Nello Scavo – le cui inchieste per “Avvenire” sono state decisive al fine di rivelare ad un più ampio pubblico italiano i rapporti tra interlocutori libici e nostre autorità – e Nancy Porsia (cfr. “Domani”, 5 aprile) osservano come modalità e contenuti delle intercettazioni da loro subite coincidono con le loro inchieste sui rapporti tra il governo italiano e gestori libici dell’ accoglienza riservata ai migranti.

Tutta questa controversia riguardante la violazione dei diritti di cronaca, ormai ampiamente visibile nei media italiani, risulta politicamente comprensibile soltanto se collegata con l’improvviso quanto drastico rallentamento del flusso immigratorio che risale all’estate del 2017, per l’opera svolta da Minniti in quanto sottosegretario del governo Renzi e ministro dell’interno del governo Gentiloni.

Il precedente governo, presieduto da Enrico Letta, si era distinto per il sostegno alla guardia costiera e alla marina italiana impegnate nel salvataggio di vite umane nell’ambito del programma Mare Nostrum, successivamente sostituito dal famigerato Frontex, tuttora vigente. Aggiungo un ricordo personale. In una conversazione telefonica dell’epoca, Jan Eliasson, vice segretario generale vicario dell’ONU, mi comunicò che aveva appena rilasciato una dichiarazione di elogio all’opera svolta dalle forze navali italiane (mi disse:”Come sai, sono ex ufficiale di marina che comprende la difficoltà tecnica di queste operazioni in alto mare”) malgrado l’esposizione solitaria dell’Italia a flussi immigratori incontrollati.

Con l’avvento dei successivi governi cambiò tutto. Minniti, che costituiva l’elemento di continuità per l’attività svolta in Libia e nel Mediterraneo, aveva compiuto il miracolo. Nel mese di luglio 2017 gli sbarchi di migranti erano calati del 50% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Nel successivo mese di agosto, gli sbarchi in porti europei, soprattutto italiani, erano addirittura ridotti a 2729 rispetto agli oltre 18.000, sempre nello stesso mese dell’anno precedente. Un risultato conseguito da Minniti, in un secondo tempo millantato dal suo successore al Viminale, Matteo Salvini, con un’intensa attività svolta sul territorio, di cui vi è poca o nessuna traccia mediatica, persino nell’intenso dibattito dedicato agli sbarchi che, finalmente, ha assunto dimensioni politicamente ineludibili.

Ma a quale prezzo fu conseguito questo risultato, politicamente importante per il diffuso clima dì ostilità nei confronti dell’immigrazione, che fosse o meno sostenuta dal diritto di asilo riconosciuto dalla normativa internazionale vigente? È questo il punto non ancora chiarito di fronte all’opinione pubblica italiana. Non così per quanto riguarda quella mondiale. A suo tempo il “New York Times” aveva tempestivamente pubblicato un’inchiesta che denunciava le responsabilità del governo italiano nella persona del suo ministro dell’interno, Marco Minniti (cfr. Declan Walsh e Jason Horowitz, 17 settembre 2017). Costui avrebbe inviato i suoi rappesentanti in Libia con il compito di indurre scafisti ed esponenti di rilevanti tribu’ libiche in organizzatori e gestori di campi di concentramento ove si sarebbero verificati soprusi ed orrori di ogni tipo, al fuori di ogni controllo da parte dell’UNHCR e dell’OIM.

Sarebbe stato compito della costituenda guardia costiera libica, organizzata,sostenuta e finanziata dall’Italia, sottrarre i migranti in pericolo al salvataggio delle navi ong, per poi rinchiuderli nei campi di concentramento a gestione libica. Mentre l’allora sottosegretario agli Esteri, Mario Giro, escludeva ogni coinvolgimento della sua amministrazione, sempre secondo il “Times”, così reagiva alle insistenze dei giornalisti: “Non posso rispondere per altri, ma lo escluderei, egli disse, quando interpellato sul ruolo dei servizi segreti italiani nella costituzione di questi gruppi”.

Pochi giorni dopo, un editoriale collettivo dello stesso giornale, intitolato “Italy’s Dodgy Deal on Migrants” (Il losco accordo dell’Italia sui migranti), così concluse la propria opera di denuncia (cfr. Editorial Board, “New York Times”, 25 settembre 2017). Vi si affermava, tra l’altro: “Mentre il sig. Minniti nega di avere effettuato pagamenti diretti a milizie o trafficanti [di migranti], è difficile credere che moneta europea, finalizzata  a  limitare flussi migratorii, non stia arrivando a costoro.”. Per poi concludere: “Si tratta di un gioco pericoloso.

Si rischia di convogliare nuovo denaro destinato ad armare fazioni rivali in Libia. E colloca l’Italia, e l’Europa, nel ruolo di assumere quali guardiani proprio coloro che traggono profitto estorcendo, affamando, riducendo in schiavitu’ e violentando migranti”. Negli stessi giorni l’Alto Commissario per i diritti umani dell’ONU, Zeid Ra’ad al – Hussein, seguito dal suo collega del Consiglio d’Europa, avevano condannato con uguale durezza l’operato italiano. A tali giudizi  – i più infamanti mai subiti dall’Italia, in epoca successiva alla caduta del regime fascista – nessun governo italiano ha mai opposto smentita o reazione alcuna.

Centro di detenzione per migranti in Libia. @Ansa

Ora noi sappiamo, principalmente grazie ai servizi di Nello Scavo di “Avvenire”, che tale svolta era stata preceduta da un incontro tra esponenti del ministro dell’Interno e l’allora portavoce della guardia costiera libica, Bija, presso la Cara di Mineo, nel mese di febbraio 2017.  Da questo e da eventuali altri incontri è scaturito il famigerato memorandum che impegna tuttora l’Italia a finanziare, addestrare e sostenere la guardia costiera libica con comportamenti e controlli non precisati.

Contestualmente è stata dichiarata guerra alle Ong di cui l’inchiesta della procura di Trapani costituisce la coda. Sappiamo che quella svolta, anche se forse non illustrata nei suoi dettagli più loschi (per usare ad uopo il termine dell’editoriale del “Times”),  era stata accompagnata da una riunione dei ministri dell’Interno che ha prodotto effetti tuttora vigenti sul modo in cui l’Europa si pone nei confronti del fenomeno immigratorio nel Mediterraneo. Il programma Mare Nostrum [corsivo] è stato sostituito da Frontex [corsivo] che, alla salvaguardia di vite umane in pericolo – dovere di chiunque, come opportunamente ribadito da Luciana Lamorgese, ministra dell’Interno dei governi Conte II e Draghi – ha privilegiato il compito di prevenire, con mezzi tecnologici variegati ed avanzati, sbarchi nei porti europei.

Si tratta, insomma, di una sorta di muro invisibile che, con l’intervento della guardia costiera di un paese dalle istituzioni ancora claudicanti, ha il compito di riportare in un porto dichiaratamente insicuro i sopravissuti ai flussi del Mediterraneo per trovare un’accoglienza che hanno più volte dimostrato di temere, se non di più, altrettanto. Come documenta una dettagliata inchiesta di Giovanni Tizian e Matteo De Monte (cfr. “Domani”, 8 aprile), Frontex, i cui costi fino al 2027 superano il miliardo , con 1300 dipendenti, ha generato un florilegio di programmi e denominazioni – Seahorse, Eurosure, fino alle commesse destinate, tra le altre, all’ Iai (“Israel Aerospace Industries“) e a Leonardo, futuro datore di lavoro di Minniti)  – con il compito di dotarsi dei mezzi più avanzati (droni compresi), per salvaguardare le nostre frontiere dai migranti. Tutto ciò, come ben noto, senza che si intraveda nemmeno un responsabile dibattito politico, in Italia come in Europa, sull’istituzione di canali immigratori sicuri e garantiti e su un’equa distribuzione, paese per paese, che ne derivano.

La distinzione, giuridicamente fondata, tra gli aventi diritto di asilo e i migranti a causa di cataclismi di diversa natura o dalla semplice fame trascura il fatto che costoro sono disposti ad affrontare sacrifici e rischi mortali. È questa condizione, oltre che, non di rado, il colore della pelle, che li distingue da migranti di altra epoca.

È evidente che questa onta non è se non una più generale conseguenza della perdurante incapacità di comprendere il fenomeno migratorio come uno dei rivolgimenti storici destinati a segnare questo secolo, accanto alle minacce alla sopravivenza del pianeta, alla rivoluzione tecnologica e ad una crescente ineguaglianza economica e sociale che ci restituisce ad una condizione simile a quella vigente alla fine del XIX secolo.

Una distribuzione territoriale della ricchezza inversamente proporzionale all’entità’ e all’età non può costituire una condizione transeunte, peraltro destinata ad alimentare immigrazioni con relative guerre tra poveri in paesi sviluppati quali quelli occidentali. Una sfida soltanto affrontabile quantomeno a livello europeo. Se ha avuto un senso la costituzione del governo Draghi, è necessario ed urgente ponga a Bruxelles la questione in questi termini.