«Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso»: la definizione è di Calvino e si adatta particolarmente a uno dei pochissimi romanzi del secondo Novecento che si possano definire classici contemporanei, Il pappagallo di Flaubert di Julian Barnes, che torna nelle nostre librerie a trent’anni dalla sua prima uscita (nuova traduzione di Susanna Basso, Einaudi, pp. 232, euro 19,00). Opera ibrida al punto da ricevere in Francia il Prix Médicis per la saggistica, il romanzo di Barnes mescola abilmente finzione, biografia, critica letteraria, enciclopedismo, ricerca scientifica, erudizione e humour britannico in un precipitato narrativo che ha fatto versare fiumi d’inchiostro a critici, narratologi e teorici della letteratura, a dispetto dell’ironia con cui l’autore li ha sempre considerati.

La vicenda ruota intorno all’ossessione monomaniacale di un medico attempato, Geoffrey Braithwaite, per Gustave Flaubert: il desiderio di annullare la distanza di sicurezza tra lettore e autore nasconde l’impossibilità, da parte del protagonista-narratore, di entrare nella realtà che lo circonda con lo stesso trasporto e la stessa emozione con cui riesce ad avvicinarsi alla biografia di uno scrittore da lungo tempo defunto. Incapace di dar voce al proprio dolore per la morte della moglie suicida, Braithwaite cerca sublimazione alla sua pena rintracciando e raccontando dettagli sulla vita di Flaubert, un personaggio al quale ha da sempre dedicato più attenzioni che non alla sua stessa consorte.

La ricerca del pappagallo impagliato che Flaubert teneva sulla scrivania durante la stesura del racconto Un cuore semplice si trasforma così nell’inseguimento di una verità che sempre sfugge: una illusione di autenticità, un rituale di autoinganno volto inutilmente a colmare il vuoto seguito alla morte della moglie. Ma c’è dell’altro, ovviamente: se per Félicité, la protagonista del racconto di Flaubert, un pappagallo impagliato finiva col divenire figurazione grottesca dello Spirito Santo, per Braithwaite l’uccello diventa lo sfuggente emblema della voce dello scrittore.

Spiega Barnes per bocca del suo protagonista: «Immaginate la difficoltà tecnica di scrivere un racconto in cui un uccello impagliato alla meno peggio, e con un nome ridicolo, finisca per rappresentare un terzo della Santissima Trinità senza, peraltro, alcun intento satirico, retorico o blasfemo. Immaginate inoltre di voler narrare la storia dal punto di vista di una vecchia ignorante senza farlo risultare né sprezzante né falso. Del resto, lo scopo di Un coeur simple è tutt’altro: il pappagallo costituisce un esempio perfettamente sorvegliato del grottesco flaubertiano».

«Oggetto a funzionamento simbolico», come certi orologi distorti nella pittura di Dalì, il pappagallo per Braithwate è il marchio di fabbrica, il logo di Flaubert, ma è anche figura della passività dello scrittore nei confronti del linguaggio e, dunque, del suo fallimento di fronte all’inadeguatezza del Verbo. «Uno scrittore in fondo non è che un pappagallo sofisticato, o no?», si domanda Barnes/Braithwaite, e risponde affermativamente, constatando che «Lo scrittore/pappagallo accoglie fiaccamente il linguaggio come un dono ricevuto, ripetitivo e inerte» Per il tramite del fittizio biografo Braithwaite e di una coppia di pappagalli impagliati, scatta così l’identificazione tra gli scrittori «reali» Flaubert e Barnes, scombussolati dall’inadeguatezza delle parole. «La parola umana è come un paiolo incrinato su cui veniamo battendo melodie atte a far ballare gli orsi, quando vorremmo intenerire le stelle», così suona l’assioma flaubertiano che torna insistentemente nel romanzo di Barnes, una evidenza di fronte alla quale entrambi gli autori si trovano impotenti, ridotti a «pappagalli del Verbo».

L’opera di Barnes è dunque un tour de force postmoderno fondato sulla corrispondenza allusiva tra opere del presente e del passato e sull’interscambio tra figure cartacee e reali: una commistione di registri, intertesti e punti di vista che lo scrittore inglese riprenderà di lì a pochi anni, elevandola ironicamente a una potenza ancora maggiore, nel romanzo in forma di racconti Storia del mondo in 10 capitoli e mezzo. Del resto, nel Pappagallo di Flaubert, che lo stesso autore ebbe a definire «un romanzo sottosopra … una via di mezzo tra un omaggio e una bottega di rigattiere», possiamo scorgere in filigrana tutti i temi che caratterizzano l’opera dello scrittore inglese.

C’è, innanzitutto, l’annosa questione: «Come riusciamo ad afferrare il passato?», di cui necessaria conseguenza e corollario è la consapevolezza che ognuno cerca di dare un senso alla vita propria e altrui costruendone (inventandone, a volte) il racconto, perché è più facile affrontare storie fittizie che non la vita reale. Braithwaite, come Charles Bovary medico e vedovo di una moglie adultera e suicida le cui iniziali sono E. B., nel corso del romanzo torna sulla vicenda di Emma Bovary con un’ossessione che tradisce il suo tentativo di comprendere la tragica fine della propria moglie alla luce di quella dell’eroina flaubertiana. «I libri non sono la vita, anche se ci piacerebbe tanto che lo fossero», si giustifica. «Quella di Ellen è una storia vera; può darsi che sia addirittura per questo che vi sto raccontando quella di Flaubert, invece». Posponendo la scrittura di sé, mentendo a se stesso mentre si sforza di non mentire al testo flaubertiano, Braithwaite sembra anticipare il protagonista del Senso di una fine, il romanzo di Barnes che ha vinto il Man Booker Prize nel 2011. Allo stesso modo, le tre versioni della cronologia flaubertiana che aprono Il pappagallo di Flaubert, così come i pennuti impagliati sporchi di insetticida che lo chiudono, preludono ai temi che costituiscono la base di uno tra i più fortunati romanzi di Barnes, England, England, tra le pagine del quale viene esibita la difficoltà di discernere il falso dal vero, arrivando alla fin fine all’apoteosi del simulacro e al primato della copia sull’originale.

E ancora: il gusto del non vissuto, delle possibilità anticipate e mai realizzate, in cui Barnes riconosce lo spirito dell’Educazione sentimentale, tornerà spesso nella sua narrativa sotto forma di nostalgia per ciò che poteva essere e non è stato: basterebbe pensare alle piccole vite borghesi in cui si consumano le attese giovanili dei protagonisti del dittico Amore ecc. e Amore, dieci anni dopo e, soprattutto, alle riflessioni contenute nel racconto che chiude la raccolta Oltremanica, in cui lo scrittore, ormai anziano, proiettato in un futuro prossimo guarda al proprio passato e alle occasioni mancate, rappresentate, in questo caso, dall’incontro in treno con una bella sconosciuta.

Ma è soprattutto nelle pagine in cui Braithwaite descrive lo sconforto per la perdita della moglie che Il pappagallo di Flaubert, «collezione di buchi tenuti insieme da uno spago», si «scrolla di dosso» ogni illazione critica, per proporsi, piuttosto, come la prima riflessione di Barnes sul tema che, più di ogni altro, nel corso del tempo finirà per ossessionarlo: l’ineluttabile e inspiegabile presenza della morte nella vita di ognuno di noi.

Così, in un modo impensabile ai tempi della prima apparizione del Pappagallo, questa che è una tra le più eleganti e ironiche messe in discussione in forma narrativa delle teorie sulla morte dell’autore finisce per ricollegarsi all’ultimo lavoro dello scrittore britannico, il dolente memoir Livelli di vita in cui, per descrivere la disperazione che gli ha causato la scomparsa della compagna di tutta un’esistenza, Barnes non esita a riprodurre le parole messe in bocca a Geoffrey Braithwaite quasi tre decenni prima.