Nel bene o nel male si apre una nuova stagione. La politica, i problemi economici, europei e italiani, vivono una situazione inedita. Più che rammaricarci della perdita della sinistra o del centro-sinistra, delle sue aspirazioni e della sua matrice socialista, forse si è aperta una stagione costituente della sinistra che a diverso titolo si richiama al socialismo. Inoltre, la crisi economica e delle sue istituzioni, più profonda e lunga di quella del ’29, costringerà tutti, ma proprio tutti, a trovare un equilibrio superiore.

Nessuno conosce l’esito finale di questo equilibrio, ma possiamo ben dire che le attuali istituzioni, come i loro precetti, non riescono a governare la transizione. Le raccomandazioni del commissario agli affari economici e monetari, Olli Rhen, circa la mancata riduzione del rapporto debito/Pil italiano sono il manifesto dell’inadeguatezza delle istituzioni europee. La sola ipotesi che il governo Letta potesse aprire una discussione europea sul Patto di Stabilità e Crescita ha suscitato una reazione “isterica”.

La crisi delle istituzioni europee è, per quanto possa sembrare paradossale, imputabile all’assenza di una propria politica economica pubblica. L’Unione europea si è caratterizzata per un insieme di norme e indirizzi sul funzionamento dell’economia, ma il potere “funzionale” del bilancio, cioè quello di condizionare, guidare e stabilizzare l’economia, è pari allo zero. L’1% del Pil europeo del bilancio (pubblico) è inutile: troppo piccolo per incidere sul sistema economico; troppo condizionato dal finanziamento degli stati. A queste condizioni il parlamento europeo non potrà mai avere un ruolo. Del resto, se non legifera su imposte e spesa a che serve un parlamento?

Se dalla crisi si esce con maggiore democrazia, assegnare all’Unione europea un bilancio pubblico prossimo al 4% del Pil, con una propria e ampia base imponibile (Iva?), sarebbe una occasione unica per adottare delle politiche attive per la crescita e la stabilizzazione; quindi per assegnare al parlamento europeo un ruolo adeguato e proprio: decidere delle scelte economiche di un bilancio europeo. Diversamente rimarrebbero le linee di indirizzo e i precetti che cadono sui singoli stati aderenti come una clava. Alla politica locale non resta che adempiere a questi precetti. Che possono essere adottati in modi diversi, ma il dibattito politico interno agli stati aderenti all’Europa non ha nessuna agibilità. E sappiamo che quando si perde l’agibilità politica si perde il senso e il ruolo stesso della politica.

In altre parole, oggi in Italia, come negli atri Paesi europei, non troverebbe spazio Altiero Spinelli, Nenni, Delors, Mitterrand, Khol, o intellettuali dello spessore di Keynes, Einaudi, Croce. È possibile che Rhen sia più potente dei fondatori dell’Europa?

Le policy europee hanno segnato la geografia democratica e politica di tutti i paesi. Se non c’è agibilità, senza un consesso europeo all’altezza della sfida strutturale che si attraversa, le pulsioni e l’immaginario dei cittadini è lasciato a persone (i politici) che vivono solo il presente. Facilmente la politica diventa populista (assenza di futuro) e il presente può prendere tante pieghe quante sono le pulsioni e i soprusi che, a torto o ragione, sentiamo come insopportabili.

Fortunatamente solo in Italia abbiamo dei leader di partito extraparlamentari, su cui sarebbe il caso di interrogarsi, ma l’oscillazione del voto è pari solo all’oscillazione della rabbia. Prima Berlusconi, poi Grillo, ora Renzi, sono lo specchio fedele dell’agibilità politica europea lasciata agli stati: tanti slogan.

Se in Europa è sopravvissuta una parvenza di socialismo, non discutiamo (ora) di quanto sia socialista, l’elezione di Renzi, la divisione del centro destra, persino la “comicità” di Grillo, sono un chiarimento politico necessario e per alcuni versi liberatorio. Nessuna di queste scelte ha delle radici nel Novecento, sia essa popolare o pseudo socialista. Eppure uno spazio di progetto e di governo inedito forse la sinistra non lo ha mai avuto così grande. Purtroppo le proposte politiche, come i progetti di politica economica, sono per lo più una risposta al malessere più o meno dirimente: reddito di cittadinanza, cassa integrazione, costi della politica, denuncia dei soprusi, diritto alla casa e via discorrendo. Tutte giuste richieste e sacrosante battaglie, ma la sfida che dovremmo affrontare viaggia su un’altra dimensione, è sfida di progetto.

William Beveridge considerava il lavoro come il fondamento dello stato sociale; Keynes ragionava di domanda effettiva; la prima democrazia cristiana declinava lo stato come agente economico. Per chi si sente socialista possiamo riprendere una idea forte del partito laburista inglese: dalla culla alla tomba. E una forza politica della sinistra non deve impegnarsi a denunciare la povertà. La differenza tra destra, populismo e sinistra è nella capacità di proporre soluzioni ai problemi, all’interno di un percorso progressivo di cambiamento.

Il nostro impegno deve progettare il cambiamento delle istituzioni del capitale (europeo e nazionale). La crisi è di struttura. Non si trascinerà nelle forme e nei modi conosciuti. La forza delle idee è più potente degli interessi costituiti (Keynes). Si tratta di riprendere il senso, oppure condividere un senso comune. Diversamente anche le forze sociali saranno schiacciate dal presente. Per questo il congresso della Cgil avrebbe potuto avere un respiro pari al libro bianco per il lavoro e il piano del lavoro, ma se questo non è stato possibile è anche perché il paese e le forze politiche non hanno un progetto per il futuro. Tuttavia sappiamo che esiste questa elaborazione e, con l’aria che tira, non è poco.

In Italia si è avviata la chiarificazione politica della destra, del centro e del riformismo liberista. Manca solo la sinistra.