«Scrivete con occhi pittori, orecchie musiciste, piedi ballerini. Siete gli araldi della verità con penna e torcia. Scrivete con lingue di fuoco». Così esortava Gloria Anzaldúa nel suo Speaking in Tongues. Alla stessa energia creativa si appella anche Mona Eltahawy, editorialista del New York Times e scrittrice di successo che vive tra Il Cairo e New York. Il suo libro, Headscarves and Hymens. Why the Middle East Needs a Sexual Revolution, è stato pubblicato di recente anche in Italia.
Tradotto da Alessandra Montrucchio, Perché ci odiano. La mia storia di donna libera nell’Islam (Einaudi, pp. 212, euro 17,50), prende spunto, non solo nel titolo, dall’articolo apparso sulla rivista Foreign Policy in cui la giornalista ha parlato della misoginia del mondo arabo, e della disuguaglianza di genere in Medio Oriente e Nord Africa. In quell’occasione, le condivisioni e i rilanci sono stati virali, insieme alle aspre critiche che le sono state rivolte. Eltahawy ha compreso che si sarebbe potuto articolare un discorso più vasto, certamente concentrato ancora sulla discriminazione ma che partisse dalla sua personale esperienza. La scelta di affidare l’epigrafe al pensiero di Anzaldúa è l’esatta intenzione di trovare nella invenzione politica di corpo e parola una rivolta possibile. Un elogio del margine, che attraversa il binomio sesso-razza come i contesti socio-economici, accolto da Eltahawy insieme ad altre femministe e attiviste che esplicitamente ricorda: Audre Lorde e bell hooks, di cui nel testo vengono riportati stralci.

«Divenni femminista per trauma – non esiste altro modo di descrivere quanto mi accadde – perché essere femmina in Arabia Saudita significa essere l’incarnazione ambulante del peccato». La giornalista dichiara infatti che la determinazione che serve a combattere sessismo e razzismo deve essere la stessa che occorre a decostruire la speciale forma di misoginia culturale presente nel mondo arabo quando viene a complicarsi ulteriormente con l’ardore religioso. Molti sono gli aneddoti, tramite le storie di donne conosciute o solo ascoltate. Esperienze che fanno credere a Eltahawy quanto importante sia riflettere sul cosiddetto «triangolo delle Bermuda», ciò che stringe donne, sesso e cultura. In questo senso, discutere e rivelare il privato appare cruciale. Le vicende minute che costellano la quotidianità in Medio Oriente e Nord Africa, non solo divengono politiche ma vanno a demolire il nesso secondo cui la relazione tra i sessi non può conoscere un destino diverso da quello indotto dalla morsa patriarcale.

E se il meccanismo che passa per l’onore e la vergogna è molto importante nei paesi arabi o musulmani, «a essere prese di mira sono le donne che fanno militanza o politica (…). Lo scopo specifico è far ritirare le attiviste dallo spazio politico». Pochi mesi dopo queste dichiarazioni contenute in una intervista più lunga, Salwa Bugaighis è stata assassinata nella sua casa di Bengasi il 25 giugno del 2014 – giorno delle elezioni per il rinnovo del Parlamento libico. Ciò per dire che prendere parola pubblica ha avuto, e spesso ha ancora, conseguenze esiziali. Tuttavia, svelare la violenza, insieme al senso di colpa per una purezza perduta e la deprivazione di una sessualità femminile, raccontano il tentativo, secondo Eltahawy, di tenere vivo il cambiamento già in atto da decenni. Per esempio il percorso che in molte hanno intrapreso all’interno delle proprie case, la mobilitazione pubblica proseguita nella denuncia della pratica delle mutilazioni genitali femminili, delle molestie, degli stupri, non si ferma.

La personale rivoluzione femminista di Mona Eltahawy è nata e cresciuta fin dagli anni della sua formazione, con una risonanza in prima battuta teorica. Apprendere di far parte di una storia più grande in cui le sue simili avevano già combattuto battaglie fondamentali per la libertà di tutte e tutti l’ha spinta a continuarne il cammino, a trasferirsi negli anni dell’università da Gedda al Cairo, a diventare attivista. Si illuminano così i nomi di Huda Shaarawi che inaugurò il movimento egiziano per i diritti delle donne e che pubblicamente al Cairo si tolse il velo. Era il 1923. E poi Doria Shakif che negli anni Cinquanta insieme a millecinquecento donne andò all’assalto del Parlamento egiziano, insieme allo sciopero della fame per il suffragio femminile.
Nawal al-Sa’dawi, Leila Ahmed, Fatema Mernissi e molte altre che hanno lottato per una nuova grammatica culturale e politica, cercando di tenere insieme i fili di parole e azioni le hanno permesso di non sentirsi in esilio da se stessa. Non perché ci odiano dunque, ma perché c’è di cui essere grate.