Nei giorni di quarantena un’immagine semplice ma potente si è ripetutamente fatta largo sino a conquistare la nostra attenzione: l’avvistamento di animali liberi di muoversi in spazi urbani deserti, resi a noi inaccessibili dal confinamento a cui eravamo sottoposti. Non di rado la scoperta degli animali in città ha provocato un senso di conforto derivante dall’inaspettata vitalità della natura. Dai conigli nei parchi di Milano alla volpe di Firenze, dai delfini nel porto di Cagliari ai cervi in Abruzzo e agli orsi in Trentino, per non fermarsi che all’Italia, la natura è sembrata riprendersi quegli spazi che le sono stati sottratti.

AGLI OCCHI DI MOLTI ha prevalso l’equazione: privazione del movimento umano = riconquistata libertà degli animali, rendendo più evidente l’aut-aut tra vita animale e vita umana che ha storicamente retto il nostro rapporto con la natura. Se l’aggressione delle attività economiche nei confronti del pianeta resta indifferente ai propri effetti distruttivi, la ricomparsa degli animali testimonia di ciò che resiste nonostante l’uomo e la sua hybris, che considera l’industrializzazione l’espressione stessa della sua volontà di potenza.

NEL SILENZIO della prospettiva domestica coatta – che qualcuno ha giustamente definito il rumore del vuoto di questi giorni – s’inserisce Sulla pista animale del filosofo francese Baptiste Morizot (Nottetempo, pp. 259, euro 19). Se è vero che per pensare l’avvenire del pianeta e delle specie viventi abbiamo bisogno di inventare nuove grammatiche della vita collettiva, il libro di Morizot aiuta ad allargare il paesaggio – percettivo, ma anche concettuale – delle nostre riflessioni, come ci invitano a fare da decenni anche i pensatori e le pensatrici dell’antispecismo. Lo fa però in un modo particolare, a partire dalle sue esperienze di tracciamento, in una sorta di materialismo dei suoi concreti incontri con gli animali. Che incontri sono e restano anche quando l’animale si imbosca dentro il rifugio che il suo habitat gli offre ed è visibile unicamente per gli indizi che i suoi spostamenti lasciano sul terreno. Forse l’esperienza di tracciamento – l’ascolto paziente e minuzioso dei segni di altre vite sul sentiero che percorriamo – risponde indirettamente a quello che Patrick Chamoiseau definiva «il richiamo segreto di ciò che esiste altrimenti».

BASTA SCORRERE rapidamente l’indice per accorgersi che i capitoli sono organizzati in base ai diversi tracciamenti: i lupi, gli orsi, la pantera, i lupi, il lombrico…, e dunque sulla base di incontri specifici, in territori differenti. Con un’evidenza immediata, le tracce indicano una presenza animale che «impedisce che la Natura diventi solo lo sfondo di un selfie. Lascia che nel mondo emergano altri poli, perché non siamo più l’unico soggetto, l’unico punto di vista che configura il mondo». Anche la sola eventualità di incontrare un animale ci costringe a riconoscere l’esistenza di altre soggettività, ci ricorda il nostro essere viventi tra altri viventi, privati da quello statuto di privilegio che gli umani si sono surrettiziamente attribuiti nel corso dei secoli.

CIÒ A CUI IL TRACCIARE accede non sono degli animali tenuti a distanza, ma un singolare intreccio delle nostre storie con le loro storie. Mentre le apparizioni degli animali negli spazi urbani sono state per lo più l’oggetto di un’operazione-simpatia di natura spettacolare, che ne falsa il significato e riconferma la supponenza asfitticamente antropocentrica della nostra cultura, occorre ora arrendersi alla constatazione che oggi più che mai abbiamo bisogno di un’etologia della civiltà animale. Se la civiltà umana è stata intesa in Occidente come il superamento dell’animale che era in noi, come la nostra elevazione sopra l’animale, per ottenere questo risultato non ci si è fatti scrupolo di sfigurare l’animale reale, utilizzandolo o come sinonimo di contaminazione – fonte di tutte le infezioni, da cui gli umani devono preservarsi – o come quell’eccezione che deve soccombere alla norma umana e che diventa normale unicamente nella forma dell’animale morto ovvero della carne da mangiare.

QUEL CHE L’ESPERIENZA del tracciamento porta con sé è il «groviglio biotico» che lega le vite umane alle vite animali e che è «il nome nascosto degli ecosistemi». Essere parte del ritmo delle cose ci permette di accedere a una nuova idea di responsabilità nei confronti di una comunità biotica, costituita da molti punti di vista. Eliminati gli altri grandi predatori, l’umano ha non di rado pensato la natura come il terreno incontrastato del proprio punto di vista, privo di altre presenze e ridotto a un serbatoio di risorse liberamente disponibili all’uso e all’appropriazione. Come al più tardi le vicissitudini virali di queste settimane hanno ampiamente mostrato, le cose non stanno proprio così.

QUESTA PROSPETTIVA rimette in gioco la nostra stessa idea di civiltà. Essere moderni ha significato per la nostra cultura non subire le costrizioni dell’ambiente, ciò che altre culture vivrebbero come un’esperienza di alienazione in un mondo morto. Ha significato vivere in un ambiente svuotato di presenze, senza la necessità di conoscerlo né di negoziare diplomaticamente con le altre vite, affidandosi alla propria presunta superiorità. In questo modo è stata eliminata preventivamente la necessità stessa di con–trattare con gli altri esseri, considerati inferiori, la cui assenza viene vissuta come una liberazione.

USCIRE DA QUESTA IMPASSE non implica ovviamente coltivare la possibilità idealistica di un’armonia con l’esistenza animale (basta la visione di uno dei film più belli di Werner Herzog, Grizzly man, per convincerci del contrario). Si tratta invece dell’avventura di un nuovo sguardo che giorno dopo giorno si alimenta della consapevolezza di una profonda crisi di coabitazione, ma anche del desiderio di riattivare nuove alleanze per inventare modi di vita più sostenibili, scommettendo «sulla potenza che gli esseri viventi hanno di tornare in gioco, nonostante tutto».

L’esigenza che qui si fa largo è di pensare la terra come mondo popolato da altre soggettività viventi, rispetto alle quali la vita umana non è che una sparuta minoranza. Questa esigenza rimette in gioco un’idea di incontro e di implicazione che sia in grado di dare ascolto a quanto delle nostre esistenze non si inscrive dentro le contrapposizioni abituali, come quella tra puro e impuro, tra domestico ed estraneo, tra selva e città.

OGGI CI OCCORRONO altre parole per dire ciò che ci capita. In questo senso il libro di Morizot è da un lato un libro sullo sguardo, andare oltre i limiti dello sguardo precedente per vedere ciò che c’è dietro ogni nostra immagine in questo compito infinito; ma d’altro, qualcosa di questo «andare» ci informa che non ci saranno sguardi capaci del loro compito se non coinvolgendo in questa avventura corpi che ripenseranno i propri modi di muoversi in natura e di stare insieme al resto dei viventi sulla Terra, di ascoltarne le voci e il loro richiamo segreto.