Kamal è stupito. Ed è felice. Mai aveva visto i suoi concittadini reagire in modo simile a un’aggressione nei confronti dei fratelli curdi. Siamo nel Kurdistan iracheno, regione autonoma dell’Iraq federale e da decenni legata a doppio filo alla Turchia. Sul piano politico, ma soprattutto economico. E militare: è qui che da anni i caccia di Ankara bombardano senza soluzione di continuità i monti di Qandil, dove operano i vertici politici del Pkk dopo la ritirata dal sud-est turco.

«Per la prima volta la gente ha risposto unita all’offensiva turca contro il Rojava, il Pkk e le Ypg – dice al manifesto Kamal Chomani, giornalista e analista – Una reazione che non ha precedenti negli ultimi 30 anni. Non solo il popolo, ma anche i partiti politici, i vertici religiosi musulmani, i sindacati, le organizzazioni della società civile, la stampa. Tutti si stanno opponendo all’operazione turca e per la prima volta mettono in discussione le relazioni tra Turchia e governo regionale del Kurdistan (Krg)».

Nei primi giorni di bombardamenti turchi e avanzata terrestre delle milizie islamiste manifestazioni di solidarietà con il Kurdistan siriano hanno richiamato migliaia di persone, nella capitale conservatrice Erbil come nella «ribelle» Suleymaniya.

E di lì a poco, grazie ai social, è partita la sola campagna che può davvero innervosire il partner storico: «È stata lanciata una campagna di boicottaggio dei prodotti turchi. Il Kurdistan iracheno è tra i migliori mercati per la Turchia. In pochi giorni il gruppo su Facebook ha raccolto 200mila adesioni e tantissime foto: la gente condivide il suo personale boicottaggio. È l’inizio di un processo che può avere effetti concreti, devastanti, sulle aziende turche».

Potente anche la copertura mediatica, critica verso la Turchia e solidale con le unità di difesa curde, Ypg e Ypg, e con il Pkk. Le stesse forze che appena qualche anno fa liberavano Sinjar, in Iraq, abbandonata nell’agosto 2014 dai peshmerga di Erbil. Ne seguì un massacro, quello della popolazione yazida da parte dell’Isis, cacciato solo un anno e mezzo dopo dai combattenti curdo-siriani.

«Il Kdp (il partito di governo, guidato dal clan Barzani, ndr) è storicamente avversario del Pkk, del Pyd e del modello Rojava – continua Chomani – Oggi ha una posizione morbida. Ma il parlamento ha emesso comunicati che, paragonati a quelli del passato, sono radicali e ha votato una risoluzione in 20 punti su come affrontare la situazione. Alcuni partiti politici si sono detti addirittura pronti a inviare forze a sostegno delle Ypg. Una reazione, seppur debole, c’è stata anche dal governo centrale. A Baghdad è forte la preoccupazione che il sogno neo-ottomano di Erdogan si traduca in un espansionismo anche verso l’Iraq. Ovvero a Mosul e Kirkuk».

Intanto è qui, nel Kurdistan iracheno, che arrivano i primi profughi. Secondo il Krg, sarebbero 10mila i siriani entrati in due settimane. Ma il numero potrebbe crescere se l’offensiva dovesse proseguire e se la Turchia dovesse portare avanti il piano di sostituzione della popolazione locale con i rifugiati siriani oggi nel suo territorio.

«Gran parte dei rifugiati arrivati finora sono donne e bambini, ma anche minori non accompagnati. Sono i soggetti più vulnerabili quelli che si mettono in viaggio per passare la frontiera». Luca Cafagna è capoprogetto nel Rojava di Un Ponte Per, ong italiana impegnata nel nord-est della Siria dal 2015: «Ora ci troviamo a Dohuk, nel Kurdistan iracheno: abbiamo evacuato lo staff internazionale dalla Siria il 14 ottobre, la situazione di sicurezza non ci permetteva di restare operativi. Lì continuiamo a operare con lo staff locale».

«I nuovi arrivati sono ospitati nel campo di Bardarash, a Ninive, dove ricevono prima assistenza. È un flusso contenuto, ma ci aspettiamo che in caso di deterioramento della situazione nel Rojava aumenti – ci spiega – È importante che il confine resti aperto. Ma il problema sono le conseguenze dell’accordo russo-turco. Sancisce l’occupazione turca e non dà garanzia del rispetto dei diritti dei locali né dell’accesso delle ong». «Ora, per noi come per le altre ong, è importante capire come tornare a operare, quali le condizioni di accesso e il grado di rispetto dei diritti».