«Quello che Fidel aveva promesso, Raul l’ha attuato». E’ questo il messaggio che i mass media cubani hanno inviato alla popolazione in questi giorni che segnano l’inizio di «una nuova era» per l’isola. Cade il muro diplomatico che per più di cinquant’anni gli Stati uniti avevano elevato per separare i due lati del Golfo di Florida; ritornano a casa i “cinque eroi”, simbolo della resistenza al potente nemico nordamericano; inizia una nuova era nei rapporti con gli Usa, certo difficile ma foriera di speranze per un futuro migliore. E Fidel tace e non si vede. Un silenzio che fa molto rumore; un’assenza di immagini che suscita molti interrogativi e da spazio ad altrettante speculazioni, specie all’estero. Il leader della revolución non approva lo storico accordo siglato dal fratello minore con gli Usa? O le condizioni di salute gli impediscono – già da tempo- di prendere decisioni politiche di tale portata? E, infine, chi comanda a Cuba?

Nessuno dei mass media cubani affronta questi argomenti e da risposte a domande che, ovviamente, si fanno gli analisti ma che circolano tra la popolazione, senza generare però ansia o eccessiva preoccupazione. Anche nell’isola, nelle conversazioni private, si affrontano gli argomenti ampiamente trattati all’estero, soprattutto negli Stati uniti. Ovvero che –come scrive il Miami Herald- «Fidel ha sempre avuto bisogno di un nemico esterno» e dunque solo un suo gravissimo stato di salute – alcuni sostengono che il più vecchio dei Castro sia in coma- «gli impedisce di esprimere la sua opposizione» alla normalizzazione dei rapporti con gli Usa. Raúl, al contrario, è più pragmatico e ha bisogno di investimenti esteri per cercare di rimettere in piedi l’economia cubana e affermare così «capacità e legittimità ad esercitare il potere». Dunque deve trattare con Washington: «Se non l’ha fatto prima è perché il fratello glielo impediva» .

Su queste ipotesi ho consultato un economista, Douglas Tamayo, uno storico, Enrique Lopez Oliva (che ha studiato nello stesso collegio di gesuiti dove si è formato Fidel) e un professore universitario, membro del partito ed esperto di relazioni relazioni con gli Usa.

Fidel non si vede in pubblico dallo scorso gennaio e la sua ultima “riflessione” – in risposta a uno degli editoriali del N Y Times – è dello scorso 14 ottobre . Le ultime immagini diffuse si riferiscono ad incontri che il lider maximo ha avuto con illustri ospiti, l’ultima con il presidente cinese Xi Jinping lo scorso 22 luglio. In tutte le immagini appare assai debilitato. E’ chiaro dunque che il suo silenzio può dipendere da condizioni di salute deteriorate. Ma da quando Fidel ha smesso la divisa verde olivo e ha indossato una tuta da ginnastica, ha lanciato un messaggio chiaro, quello di aver lasciato il posto di comando. Questo messaggio lo ha inteso la gran maggioranza dei cubani, anche se curiosamente il resto del mondo non se ne è dato conto. Oggi, le redini del potere politico a Cuba le tengono il più giovane dei Castro e il suo gruppo di fedeli, in gran parte militari e personalità politiche che per lealtà, per età o per mancanza di forti relazioni politiche esterne, non hanno un proprio programma. In sostanza, non vi è nell’isola una politica credibile alternativa a quella delle riforme socio economiche –ma in prospettiva anche politiche- iniziata dal governo di Raúl. Dissensi vi sono, sulla tabella di marcia e sulla profondità delle medesime e sui tempi di riforme politiche. Il “giovane” vicepresidente Díaz Canel per ora viene «preparato» per assumere il potere tra qualche anno, se le riforme funzioneranno.

Fidel, semplicemente mantenendosi in vita, da alla politica di Raúl una legittimità e un «respaldo» che, da solo e almeno fino a oggi, il più giovane dei Castro non possiede di fronte a una parte del partito e della sua burocrazia che sono restii, se non apertamente ostili, a qualsiasi cambio che comprometta il loro «potere di posizione». In questo senso, i due fratelli, hanno risolto «in modo brillante» e «in tandem» , una difficile situazione politica creatasi nel 2006, quando, a causa di una grave malattia, Fidel ha lasciato il potere. In quel periodo vi era tensione e angoscia. Il problema era la transizione da una «Cuba con Fidel» a Cuba senza il leader storico. Il problema fondamentale non era, e non è, attuare «un cambio», ma «governare il cambio», ossia definire un tragitto di riforme economico sociali mantenendo fermo il controllo politico. Impedire una situazione simile a quella della Russia dopo l’implosione dell’Urss nel 1991. Insomma, seguire il “modello” cinese o vietnamita, piuttosto che la «catastrofe» causata dall’allora presidente russo Yelzin. Anche ieri Mariela , figlia di Raúl e deputata, ha affermato che «a Cuba non tornerà il capitalismo». Ovvero che le riforme in corso devono salvaguardare le conquiste sociali della Revolución.

Questa linea politica, che dovrebbe portare a una sorta di liberalizzazione controllata dell’economica e in prospettiva della politica cubana ha forti appoggi. All’interno, da parte della Chiesa cattolica, all’estero in primis nell’America latina (due “giganti”, Brasile e Messico, in particolare) e dall’Europa che ha deciso di abbandonare la vecchia “posizione comune” ed è impegnata in trattative per ridefinire i rapporti con l’isola, appoggiandone le riforme. E ora, anche gli Stati uniti hanno aperto una possibile via per ridefinire le relazioni con L’Avana.
La Chiesa cattolica, secondo Lopez Oliva, è seriamente impegnata in un processo, il cambiamento pacifico , che ha l’appoggio della grande maggioranza dei cubani. Infatti la Chiesa ha forti radici in molte comunità popolari dell’isola. Il cardinale Jaime Ortega e il più giovane dei Castro hanno trovato la strada dell’intesa. Raúl ha fatto concessioni –liberazioni dei prigionieri di coscienza e soprattutto in altri importanti settori come l’istruzione e la comunicazione- e il vertice episcopale si è impegnato per un cambiamento pacifico se non in alleanza, quantomeno non ostile, al governo. Inoltre, vi è un movimento laico cattolico e più in generale cristiano, formato da un’intellighenzia collegata e in parte proveniente dalle fila comuniste, che in prospettiva potrà agire come soggetto politico, quando verrà affrontato il tema del pluripartitismo. Il loro obiettivo è pragmatico: far funzionare un sistema che oggi è palesemente in crisi.

Chi resiste o si oppone a tale processo di riforme? Anche su questo punto vi è una sostanziale concordanza di vedute. Circa la metà della popolazione cubana –poco più di undici milioni di persone- vive, o sopravvive, del welfare socialista – una serie di servizi e prodotti fortemente sovvenzionati dallo stato, oltre all’istruzione e all’assistenza sanitarie gratuite. Tanto che quasi il 70% del budget statale è dedicato alle spese sociali. Non solo, più dell’80% della forza lavoro dipende dal settore statale. E’ vero che riceve un salario insufficiente, ma ha diritto all’assistenza di cui sopra che, quantomeno, evita la povertà e la fame. E questo genera timori nei confronti di cambiamenti che non siano calibrati. Inoltre vi è una burocrazia potente, nel partito e nello stato, che vive – e in alcuni settori, come quello turistico, vive bene- proprio grazie al proprio posto. Tanto che la lotta alla corruzione è una delle priorità dell’agenda di governo.