Centinaia di persone hanno protestato nei giorni scorsi all’Avana di fronte all’ambasciata dell’Ecuador. I cubani ammassati dietro il labile sbarramento di un nastro di plastica giallo , ma sorvegliati da molti poliziotti, chiedevano di poter viaggiare in Ecuador, unico paese latinoamericano che permette l’ingresso senza visto ai cubani. O meglio permetteva, visto che le cose sono cambiate e che dal primo dicembre sarà necessario un visto di ingresso, in conseguenza di una nuova crisi migratoria che investe Cuba.

Le ragioni di tale scelta, e della protesta dei trecento, derivano dal fatto che da mesi l’Ecuador è il “trampolino di lancio” di un viaggio lungo (5500 chilomteri), costoso (tra i 5 e 10 mila dollari, in gran parte per pagare le mafie di trafficanti di persone e per doganieri e funzionari da corrompere) che attraverso Colombia, Panama, Costa Rica, Nicaragua, Honduras e Messico (paesi nei quali entrano in modo «irregolare», ovvero senza visto) permette ai cubani di giungere negli Stati Uniti. Dove, grazie al principio del «piede secco, piede bagnato» i cubani che riescano a entrare nel territorio statunitense (non nelle acque territoriali) hanno diritto alla residenza legale e automatica. Diritto non concesso alle centinaia di migliaia di altri latinoamericani che rischiano la vita per entrare – come clandestini- negli Usa. Dal 13 novembre, però, il Nicaragua non permette il transito ai cubani che non abbiano un visto, «sia per evitare che mettano in pericolo la loro vita, sia per impedire pratiche illegali».

A quella data il Costa Rica, paese confinante con il Nicaragua, aveva concesso il visto di transito a 3853 cittadini della maggiore delle isole dei Caraibi, che dunque sono bloccati nel suo territorio. Di questi, 2886 sono ammassati nella località di frontiera col Nicaragua, La Cruz , in 18 “rifugi” garantiri dal governo costaricense, che fornisce loro cibo e assistenza sanitaria.

Ma la crisi migratoria è più estesa, infatti centinaia di cubani sono «bloccati» in Colombia, Honduras e Messico per «problemi» con le mafie locali di trafficanti di persone. La settimana scorsa nella capitale di San Salvador vi è stata una riunione del Sica, Sistema di integrazione centramericana, al quale hanno partecipato anche Cuba, Colombia, Ecuador e Messico, dedicata alla crisi: i paesi partecipanti si sono espressi a favore di una politica aperta, ma regolata, nei confronti dei migranti e hanno chiesto agli Usa di mettere fine al regime preferenziale concesso ai cubani perché genera un «un flusso di emigranti che sono in balia delle mafie» e rischiano la loro vita.

Il governo dell’Avana ha denunciato che i propri cittadini sono «vittime della politicizzazione del tema migratorio da parte del governo degli Stati Uniti» e ha assicurato che i tremila bloccati in Costa Rica possono ritornare nell’isola quando vogliono, visto che sono usciti dall’isola legalmente, mentre l’Ecuador ha annunciato che dal primo dicembre introduce l’obbligo di visto per i cubani.
Di fronte alle proteste di venerdì, il governo di Quito ha fatto sapere che tutti i cubani che hanno acquistato un biglietto aereo prima del 26 novembre potranno entrare nel paese senza visto. Ma la crisi migratoria è tutt’altro che risolta, mentre continua la polemica tra chi accusa il Nicaragua – e ora anche l’Ecuador – di essere in combutta con l’Avana per cercare di limitare la «fuga in massa» di cittadini cubani che «non ne possono più di crisi economica e mancanza di libertà e democrazia» e il governo dell’Avana che chiede al presidente Obama di abolire la legge del «piede secco, piede bagnato» che ha l’unico scopo di favorire l’emigrazione dall’isola anche se mette i cittadini cubani in condizione di illegalità e di pericolo.

Il governo dell’Avana insiste nel chiedere la fine del bloqueo/embargo decretato unilateralmente più di cinquant’anni fa come una delle condizioni per giungere a una completa normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti. Ma la destra nordamericana, non solo repubblicana, continua a pretendere che l’intero corpo di leggi che formano l’embargo sia mantenuto. Compresa la legge del «piede secco…» che fu varata negli anni Settanta del secolo scorso per garantire protezione a «rifugiati politici e esuli di un regime dittatoriale» che in patria «minacciava la loro vita» .
Da più di due anni, però, la nuova legge migratoria varata dal governo dell’Avana permette alla grande maggioranza dei cubani (con restrizioni per chi lavora nei settori definiti di «sicurezza nazionale») di emigrare liberamente. E garantisce loro di mantenere la residenza nell’isola per due anni. Così si ha la situazione surreale dei cubani che vengono «legalmente e automaticamente» ammessi come residenti negli Usa suppostamente come rifugiati o esuli, i quali però, una volta avuta la «carta verde», possono ritornare quando vogliono a Cuba, dove conservano casa e residenza. La questione è causa di dibattito e di un certo imbarazzo neli States, dove però sia la pattuglia sempre più ridotta degli anticastristi di professione, sia il Tea party e in generale la destra continuano a pretendere il mantenimento della, ormai assurda agli occhi della maggioranza dei cittadini Usa, legge del «piede secco…». La tesi politica sostenuta da questo schieramento e che così i cubani possono esercitare il loro diritto di «votare con i piedi», ovvero di dimostrare la loro opposizione alla «dittatura dei Castro».

La questione però si è aggravata, paradossalmente, proprio dopo l’inizio della distensione – annunciata nel dicembre del 2014- tra i due paesi. Molti cittadini dell’isola temono che il processo di avvicinamento tra Cuba e Usa proceda e che porti alla fine della legge del «piede secco…», dunque cancelli il privilegio goduto dai cubani che giungono negli Usa di avere automaticamente l’agoniata «carta verde». Questo induce migliaia di persone a vendere tutti i loro beni e a chiedere aiuto finanziario a parenti , per raccimolare gli 8-10 mila dollari necessari per intraprendere la pericolosa avventura prima che sia troppo tardi.