È sempre più raro che i teatri d’opera del mondo, compresi quelli più prestigiosi, patrocinino opere nuove. In questi giorni il Teatro alla Scala di Milano è arrivato alla sua quinta commissione, con relativa prima esecuzione assoluta, dagli inizi del nuovo millennio. Dopo la politica Teneke (2007) di Fabio Vacchi e la psicodrammatica Quartett (2011) di Luca Francesconi, è la volta dell’ecologica CO2 di Giorgio Battistelli (libretto di Ian Burton). Un’opera a tesi, che raccoglie le idee rivoluzionarie di Gaia: A New Look at Life on Earth (1979) di James Lovelock, secondo cui la Terra è un organismo vivente autoregolantesi, le cui caratteristiche si mantengono favorevoli alla presenza della vita grazie ai comportamenti degli organismi che vi abitano. Un quadro che dialoga serratamente con la cornice di Expo 2015 e con le domande globali indifferibili a cui questa kermesse tanto discussa dovrebbe tentare di rispondere.

Il titolo fa riferimento alla formula chimica dell’anidride carbonica, sostanza paradossale indispensabile a processi vitali come la respirazione animale e al tempo stesso responsabile del surriscaldamento globale e dell’effetto serra. Su questa questione il protagonista, il climatologo David Adamson (nomen omen: Davide è una figura chiave sia nell’ebraismo che nel cristianesimo che nell’islam, Adamo è il capostipite del genere umano), discetta nel prologo, nell’epilogo e in alcune delle nove scene in cui si articola l’opera, il cui filo conduttore è proprio la conferenza che egli va a tenere a Kyoto nel 1997 per cercare di spiegare i rischi che incombono sul pianeta. La sua esposizione è a più riprese interrotta da episodi di vita comune e da squarci visionari, secondo una logica del collage di saperi e stili che Burton riconduce alla poesia modernista (si pensi a T.S. Eliot).

Così accanto allo scienziato campeggiano, oltre agli sconosciuti incrociati in aeroporto e ai colleghi presenti alla conferenza di Kyoto, quattro arcangeli (Raffaele, Uriele, Gabriele, Michele), sacerdoti induisti, Adamo, Eva e il Serpente, Gaia, personificazione dell’antica dea greca della Terra, una certa Signora Mason, sorella di una sopravvissuta allo tsunami, che parla col Signor Changtalay, direttore di un hotel in Tailandia, e una ridda di donne che fanno la spesa al supermercato. In una fuga sincretica a tratti vertiginosa vengono mescolati il sapere scientifico e quello mitico-religioso, l’occidente e l’oriente, il realistico e il fantastico, la cronaca e la speculazione, lingue eterogenee in quella che vuole apparire come una Babele linguistica, culturale ed etica (cori in latino, sanscrito e greco antico, le lingue globali all’aeroporto ecc.).

«Lontano da ogni estetica restaurativa come da ogni feticismo tecnologico» (Cimagalli), Battistelli traduce la natura sociale dei temi trattati in una dimensione sistematicamente corale e in un’interazione continua tra i singoli personaggi, che si esprimono secondo una gamma assai variegata di tecniche, dal canto spiegato al semplice parlato attraverso lo Sprechgesang e diverse modalità di declamazione intonata (come l’intonazione ripetuta di una stessa nota, la libera realizzazione ritmica di una linea melodica o l’insistenza sulle pause) fino alla più pura atestualità (spesso il coro canta a bocca chiusa, afono, espirando e inspirando senza timbro, sussurrando ecc.). Tutto su una tessitura armonica mobile ma ben salda, caratterizzata dall’inizio alla fine dall’uso massiccio delle percussioni, che il direttore Cornelius Maister padroneggia con slancio e grande cura del dettaglio, assecondato anche da un cast di primordine, in cui spiccano Anthony Michaels-Moore, Jennifer Johnston e Orla Boylan.

La messa in scena hi-tech di Robert Carsen ci fa vedere il mondo, l’attualità e millenni di culture eterogenee, attraverso il monitor di un Mac, riducendo ironicamente le sequenze cosmogoniche (che evocano i fantasmi illustri di Kubrick e Malick) allo sfondo di un desktop e i paesaggi reali a immagini jpeg raccolte in cartelle, e lavorando sull’anestesia che imbriglia la coscienza dell’uomo contemporaneo, apolitico proprio perché sempre più avvezzo a fruire la realtà attraverso protesi e schermi, che, mentre lo connettono al mondo, irrimediabilmente gliene fanno perdere la percezione.