Itaca è un pezzo di terra fluttuante che arretra di continuo: la dimora più sicura ove riporre i sogni per il futuro, perché non si realizzano mai; la casa da cui si proviene, ma in cui non si può tornare. La casa che non ti appartiene, ma ti spalanca le sue porte offrendotisi solo come dono. È Suðuroy – la più meridionale delle Isole Faroe – la Itaca agognata e lontana di Siri Ranva Hjelm Jacobsen, giovane scrittrice danese al debutto con il romanzo Isola (trad. it. di Maria Valeria D’Avino, Iperborea, pp. 220, euro 17), in presentazione a Milano al festival nordico I Boreali dal 22 al 25 febbraio.

Da Suðuroy, un lembo di terra tenuto stretto dalle cosce potenti del mare, è partita la giovane Marita poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale per raggiungere il marito Fritz, in Danimarca alla ricerca di un’istruzione e di una vita migliore. E a Suðuroy torna ai giorni nostri la nipote, «ospite del sangue», «dispersione biologica della migrazione», mossa dalla struggente e paradossale nostalgia per una casa – «brutale ammasso roccioso» – nella quale non ha mai abitato. Eppure, in Isola, di quella casa Jacobsen riesce a farti sentire pungente l’odore di pecora e di muschio, a farti percepire tagliente l’aria salmastra, mentre il sole di mezzanotte «formicola nelle vene»: il tutto attraverso una lingua dalla precisione lancinante e dal corpo frastagliato come i fiordi delle Faroe, una lingua tersa solo come il cielo al 61° parallelo nord può essere.

Crede che un paesaggio geografico possa influenzare una lingua?
Assolutamente. Questo romanzo è linguisticamente costruito sulla posizione geografica delle Faroe, piccolo arcipelago atlantico tra la Scozia, l’Islanda e la Norvegia. Ho voluto provare a costruire un linguaggio che avesse proprio la peculiarità di questa posizione «di mezzo». Ho guardato soprattutto alla letteratura islandese e a quella delle Faroe stesse, al realismo magico del Nord, al linguaggio immaginifico. La letteratura danese si sposta invece maggiormente verso il continente, va in una direzione differente rispetto a quella che io avevo in mente, guarda agli Stati Uniti, alla Germania, all’Inghilterra. Ho cercato di rifarmi soprattutto alla tradizione islandese, a una visione magico-poetica che è inscindibilmente legata al paesaggio, un paesaggio in cui la natura è estremamente mutevole, dura, selvaggia, ma in modo poetico.

Si avverte della rabbia tra le righe del suo romanzo quando descrive la terza generazione di immigrati, la sua, quella che lei chiama una generazione «invisibile», «teorica». Che cosa significa? Perché questa rabbia?
C’è della rabbia, è vero, rabbia verso se stessi, dunque volta interiormente, ma anche verso l’esterno. La terza generazione di immigrati è quella che parla la lingua, ormai è parte della società, è fisicamente e socialmente integrata, ma non è per forza di cose emotivamente coinvolta.
È in conflitto, e questa è una cosa che io ho in comune con la protagonista del romanzo, anche se ci sono delle diversità. È come se sentissi giocoforza di essere «naturalizzata», ma in realtà non lo sei, ti percepisci inadeguata, è come se avessi fallito qualcosa. Allo stesso tempo, avverti dentro di te un lutto, una mancanza che deriva dal non appartenere del tutto a un luogo, ed è un lutto che si tramuta in rabbia perché ti senti fuori posto e non puoi farci nulla. Non c’è, in realtà, un luogo in cui tu possa immaginare di riporre i tuoi sentimenti. La teoria della migrazione dice che si realizza in tre generazioni: la prima è quella che parte, deve mettere un tetto sopra la testa, del pane sulla tavola. La seconda vuole una casa più grande, più pane… e poi? La terza può permettersi lavori poco lucrativi: perché accontentarsi di fare i medici o gli avvocati se si può diventare drammaturghi? È una generazione che ha tutte le possibilità, ma non sa dove andare. Deve esprimere la propria interiorità, ma è a casa solo per metà, deve trasportare di qua anche lo spirito, ma le radici sono altrove.

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Nuotare, insomma, è più facile che tenersi a galla, lo scrive lei nel romanzo…

Esatto, quando hai ottenuto tutto quello che materialmente volevi, che cosa resta? Devi cercare te stesso, ma sei anche le tue radici.
In danese avete due parole per dire nostalgia: «hjemve», la nostalgia di casa, e «nostalgi», una mancanza più vaga e indefinibile: di quale «nostalgia» parla davvero il suo romanzo?
Nel contesto del libro, hjemve si riferisce ovviamente a un luogo fisico dove puoi andare, nostalgi è un luogo della mente che non ha a che fare con la geografia, è un posto che non c’è più, che è nell’immaginazione, nel passato, un luogo difficile da raggiungere o in cui in realtà non puoi andare: la nostalgia intesa in questo senso è un sentimento distruttivo. Hjemve è un sentimento potente, ma è buona. La nostalgi invece può essere molto pericolosa. Per quanto mi riguarda, posso dire che il sentimento paradossale che ho provato io fin da bambina è stato quello della hjemve, ma per un luogo in cui non ho mai abitato. Come si potrebbe definire un sentimento simile? Per questo ho provato un terribile imbarazzo, vergogna vera e propria, quando è stato il momento di andare a presentare il mio romanzo alle Faroe, perché temevo mi prendessero per una sciocca, un’impostora. Invece, proprio grazie all’accoglienza che ho ricevuto alle Faroe, ho capito che casa non è solo qualcosa che devi avere dentro di te, ma anche qualcosa che ti consegnano gli altri, che ti viene donato.

La nostalgia può rivolgersi non solo allo spazio, ma anche al tempo. Del nonno materno, il primo migrante del romanzo, lei parla come di un migrante autentico perché «viveva nel futuro finché non ha cominciato a vivere nel passato». Che cosa significa?
Io credo che il luogo di cui si ha nostalgia sia bloccato in un’epoca che non esiste. È cristallizzato nel tempo. Quando sogni per il futuro – mi riferisco ai sogni del nonno, per esempio – sogni di poter proiettare il «nuovo» del futuro nel tempo del passato che è rimasto nella tua memoria. Quando sei un migrante, viaggi verso un futuro migliore, verso migliori possibilità, una migliore educazione, un buon lavoro: ma il nonno voleva tornare a casa e riportare indietro tutto quel «futuro». Perché il suo senso di sé era nel passato.

Esiste una differenza nel modo in cui un uomo e una donna provano nostalgia?
Credo di sì. Nei libri della scrittrice svedese Selma Lagerlöf le donne salvano sempre gli uomini. Succede in ogni libro. Il motivo per cui per cui ci riescono è perché non sono così attaccate alla casa, a sé, come gli uomini. Loro hanno sempre avuto meno e quindi sono più libere. «Se non fosse stato per la tua omma saremmo tornati a casa da un pezzo», ripete sempre il nonno nel romanzo.

Lei scrive che l’«assimilazione» è una perdita sistematica di memoria. È possibile essere assimilati senza perdere la memoria?
Non credo nell’assimilazione. Comporta una perdita di memoria: non penso sia d’aiuto rinunciare a parte della propria identità. È solo conoscendo meglio te stesso che sei maggiormente in grado di essere parte di una nuova società, perché hai modo di percepire il tuo valore, senti che hai qualcosa da dare. Una volta che sei assimilato, invece, non hai più nulla da offrire.

Quali sono i suoi modelli letterari del Nord Europa?
Una cerchia di autori: l’islandese Einar Már Guðmundsson, la svedese Selma Lagerlöf, il faroese William Heinesen. Ma più di ogni altra cosa i miei riferimenti letterari sono i miti, le saghe, i canti e i racconti popolari, ogni modalità di racconto e di storie che sia connesso con una comunità, i canti danzati nei quali mentre si ricorda e sinarra una storia anche tu fai parte del cerchio, sei intrecciato agli altri. Ce n’è un esempio nel mio romanzo, la canzone a diciannove strofe che racconta un episodio della guerra di Kalmar, viene intonata insieme alla festa per il settantesimo compleanno del nonno.