Centinaia di candele accese in ampi cerchi, uno dentro l’altro. Tutto intorno, lunghe file di uomini e donne, vecchi e bambini. Quasi ognuno ha in mano un ritratto, una foto ingiallita, una cornice che custodisce il volto di un parente scomparso più di trent’anni fa, ucciso o torturato. Alle loro spalle, già inghiottito dal buio, il palazzo Darulaman, fatto costruire negli anni Venti del secolo scorso dal re modernizzatore Amanullah Khan. Un edificio massacrato dalla storia, ridotto a simulacro del passato, in attesa di tornare al suo iniziale splendore.

Al termine di una breve manifestazione, nel tardo pomeriggio di domenica 29 settembre è qui che si sono riunite circa 300 persone. Erano alcuni dei familiari delle vittime del regime comunista filosovietico salito al potere dopo il colpo di stato dell’aprile 1978. Orchestrato dagli ufficiali guidati da Nur Mohammad Taraki, passato per l’omicidio dell’allora presidente Daud Khan, il colpo di stato avrebbe portato al potere, brevemente, le due anime del Partito democratico popolare d’Afghanistan (Pdpa), «Parcham» e «Khalq». Due gruppi antagonisti, sempre in lotta – prima e dopo il colpo di stato – per rivendicare l’ortodossia marxista-leninista. Epurando i «non allineati», come spiega bene il ricercatore afghano Niamatullah Ibrahimi nel saggio Ideology Without Leadership. The Rise and Decline of Maoism in Afghanistan, pubblicato dal Kabul Afghanistan Analysts Network.

Alle spalle del «castello Darulaman», come lo chiamano gli afghani, molti quel giorno erano in silenzio, altri ricordavano al microfono i crimini subiti da un padre, un cugino, un fratello, uno zio. Qualcuno piangeva. Il 17 settembre la Procura nazionale olandese ha reso pubblica una «lista della morte» stilata dalle autorità afghane dell’epoca (1978-79): quasi 5.000 nomi, vittime delle purghe del regime. La lista è meticolosa: include nome, cognome, professione e ragione dell’uccisione. Il padre di Mirways Yameen è il numero 2419 su quella lista. Insegnante, accusato di essere un «maoista», è stato prelevato da casa in un villaggio della provincia di Laghman, portato in una prigione locale per due giorni, poi trasferito in una prigione di Kabul, dove è rimasto altri due giorni.

Il terzo è stato giustiziato, «insieme a 120 altre persone, quello stesso giorno», racconta Mirways Yameen. Lui ha avuto conferma della morte del padre soltanto leggendo la lista: «ho cercato a lungo di sapere cosa gli fosse successo. Ho provato e riprovato. Ho cercato dappertutto, qui e all’estero, ma niente. Con i miei fratelli, sapevamo che non era vivo, ma era come se lo aspettassimo ancora. Mi è capitato spesso, nel corso degli anni, di immaginare che mio padre fosse un mendicante incontrato per strada, un uomo ridotto alla pazzia, rimasto solo e senza parenti. Ora so che non è così. Non lo cercheremo più», mi dice Mirways Yameen. Secondo le stime dello studioso Gilles Dorronsoro – citate nel Conflict Mapping Report pubblicato dalle Nazioni Unite nel 2005 – le vittime del regime comunista sarebbero «in tutto tra le 50.000 e le 100.000». Mirway Yameen chiede verità e giustizia non solo per suo padre e per quelle vittime, «ma per tutte le vittime degli ultimi 35 anni».

Perché a partire dal colpo di stato dell’aprile 1978, tutti i regimi che si sono succeduti, scrive l’analista Kate Clark dell’Afghanistan Analysts Network, sono stati colpevoli di «esecuzioni sommarie, massacri, bombardamenti indiscriminati, uccisione mirata di civili». Alcuni dei responsabili di questi crimini, aggiunge Kate Clark, oggi detengono posizioni di potere. Alcuni siedono nel Jihadi council che, su sollecitazione di Karzai, ha dichiarato due giorni di lutto nazionale per le vittime del regime comunista, dopo la pubblicazione della lista. «È una cosa assurda, ridicola e spaventosa. Soltanto in Afghanistan può succedere una cosa simile. Farebbero meglio a tapparsi la bocca, quei criminali», dice Mirways Yameen.