Il 5 agosto scorso il pianista afroamericano Randy Weston ha suonato al Middelheim Jazz Festival di Antwerp (Belgio). Il 18 ottobre è atteso al San Francisco Conservatory per una lezione/concerto sul pianismo di Thelonious Monk: «Stride to Bop». Circa due mesi fa (14 giugno) il newyorkese National Jazz Museum di Harlem lo ha invitato al suo «2017 Annual Benefit Cocert»: Weston ha ricevuto dalla prestigiosa istituzione Legends of Jazz Award. Niente male per un novantunenne nato il 6 aprile 1926 che sempre nel 2017 ha pubblicato un doppio album, a testimonianza di una creatività ininterrotta: The African Nubian Suite (African Rhythms Label, acquistabile sul sito ufficiale). Oltre a grandi musicisti come Billy Harper, Howard Johnson, Cecil Bridgewater, TKBlue, Lewis Nash e Neil Clarke, nell’album si ascoltano le liriche della poetessa Jayne Cortez e funge da narratore Wayne Chandler (autore di Ancient Future, esperto di tecniche bioenergetiche).

Il pianista riflette attorno all’origine dell’umanità e al più antico scheletro fossile (Ardi) trovato 4,5 milioni di anni fa nell’antica Nubia (attuale Etiopia). Nel suo viaggio sonoro rende omaggio alla religione Sufi, alla dinastia cinese degli Shang, al blues, alla «African Family» che le diaspore hanno portato in giro per il mondo, alle figure di Joe «Tricky Sam» Nanton ed Eddie «Cleanhead» Vinson. Un album che sintetizza e approfondisce la «poetica sonora» di una vita.
Randy Weston è del 1926, cioè un coetaneo di Miles Davis morto nel 1991. Se si pensa al trombettista, la sua è una straordinaria carriera contrassegnata da fasi diverse, dagli esordi bop al tecno-funk degli anni ’80. Vari fili collegano il Davis cool con quello di Tutu ma evidenti sono anche gli scarti. Nel caso di Weston la musica muta in maniera «organica», è la trasformazione di un pensiero che è filosofico e sonoro. Dagli esperimenti sui tempi dispari degli anni ’50 fino alla recentissima The African Nubian Suite, la sua musica si espande e approfondisce a partire da radici solide, da un’idea della vita e della storia che attinge linfa vitale al passato, sa vivere nell’oggi e proiettarsi nel domani. Ancient Future (Mutablemusic, 2001) è il significativo titolo di un album ispirato ad un saggio di Wayne Chandler: Ancient Future: The Teaching and Prophetic Wisdom of the Seven Hermetic Law of Ancient Egypt (1999).

Novantuno anni, un gigante alto più di due metri che ha praticato basket e football prima di dedicarsi alla musica, Randy Weston dagli anni ’50 lavora alla connessione delle musiche nere tra Africa ed Americhe, in un itinerario artistico che lo ha portato in giro per il mondo (soprattutto New York, il Nordafrica e Parigi). È l’unico jazzista ad aver vissuto per un significativo periodo nel Continente Nero (prima a Rabat e poi a Tangeri) suonando in diciotto nazioni e confrontandosi sempre con i musicisti locali, dalla confraternita degli Gnawa a Guy Warren.

«Si sono avute importanti civiltà nella storia universale: egizia, greca, romana, persiana… In Africa c’è stata la prima. Nel ventesimo secolo i ritmi e lo spirito africani si sono diffusi nella musica: blues, jazz, gospel, spiritual, rock, samba, bossa nova, afrocuban, calypso, reggae, hip-hop. In ciascuna gli elementi più importanti sono africani, eliminandoli non resta quasi nulla. Noi siamo stati deportati dall’Africa in schiavitù; in qualsiasi luogo si trovi oggi la gente africana, la musica ha un potere spirituale, e rende la gente felice. Siamo un popolo globale» (da Randy Weston: l’Africa come destino in «Musica Jazz» n°4/1997).

Nutrito dal padre Frank Edward nel culto dell’Africa, Weston ha costantemente indagato il contributo fondamentale degli schiavi neri e dei loro discendenti alla storia del mondo, musicale e non. È profondo conoscitore delle idee di Marcus Garvey, amico del poeta e letterato afroamericano Langston Hughes, attento studioso dello storico senegalese Cheikh Anta Diop (autore, tra l’altro, di The African Origin of Civilization: Myth or Reality) e del sinologo Martin Bernal (Atene Nera: le radici afroasiatiche della civiltà classica).

La sua visione della musica ha una dimensione globale: «Jazz? Che cos’è il jazz? Meglio parlare di ’african rhythms’, una musica suonata per centinaia di anni al di qua e al di là dell’Atlantico, che ci ispira come esseri umani e rappresenta storicamente un modo di vivere (…) C’è l’Africa e ci sono state storicamente molte migrazioni, ma si conservano i tratti delle musiche tradizionali africane: l’andamento responsoriale, la poliritmia, il versante spirituale dell’espressione sonora, la creazione spontanea, l’improvvisazione».

Nel flusso ampio della produzione di Weston, si propongono tre album del suo percorso, elementi di un affresco sonoro amplissimo e policromo. A New York nel novembre 1960 viene inciso Uhuru Afrika: 27 musicisti, da Clark Terry a Max Roah, per una suite in quattro movimenti celebrante la nascita in quell’anno di 17 stati africani, liberi dal colonialismo. Concepito con Langston Hughes, in kiswahili ed inglese, Uhuru Afrika si pone tra la Freedom Now Suite di Max Roach e Africa di John Coltrane, un «trittico» che rappresenta la lotta antirazzista, la nuova Africa e la sua immagine archetipica.

Tanjah viene registrato a New York nel 1973 con uno stuolo di percussionisti, Ahmed Abdul-Malik che suona l’oud, Billy Harper al sax tenore; il risultato è un’intensa fusione tra ritmi nordafricani, caraibici e jazzistici. È il frutto maturo degli anni trascorsi in Africa, la proiezione discografica dell’African Rhythm Cultural Center fondato dal pianista e dei suoi festival «panafricani».

Il doppio cd The Spirit of Our Ancestors (1991) vede un’ampia formazione con gli arrangiamenti di Melba Liston e solisti quali Dizzy Gillespie, Benny Powell, Pharoah Sanders, Dewey Redman e il musicista gnawa Yassir Chadly. Vi si celebrano gli antenati e le loro anime, il blues, la spiritualità che si fa, secondo le sue parole, «preghiera per tutta l’umanità». Con il consueto, fabulatorio senso storico-architettonico, Weston parte dal piano solo per arrivare ad organici più ampi, dialogando con gli Gnawa e la loro cosmogonia sonora. Ci si muove e si ritorna ad una sorta di villaggio africano trapiantato nella Big Apple (African Village Bedford-Stuyvesant) dove c’è posto per uno spiritual gnawa (Blue Moses) e per il fraterno «gesto» sonoro di A Prayer for Us All.