«Ricordo anche il giorno esatto: 23 aprile 1968, pomeriggio. Il momento in cui ho tirato fuori il primo suono dal sassofono, un sax alto: quel suono mi è entrato dentro, non l’ho più dimenticato. Non sapevo assolutamente niente né di sax né di musica. È stato proprio il suono che mi ha interessato. Avevo 13 anni: da allora non ho più smesso di produrre suoni, e di improvvisare».
Esponente della generazione successiva a quella dei capiscuola dell’improvvisazione europea come Derek Bailey, Evan Parker, Peter Brotzmann, specialista del sax soprano e del sopranino, Michel Doneda è da decenni uno dei protagonisti più lucidi e conseguenti della free music, e, in una musica che convenzionalmente si usa chiamare «improvvisazione radicale», uno dei più radicali. Doneda viene con una certa frequenza in Italia: lo abbiamo intervistato a Milano, nel mitico studio/cantina del batterista Filippo Monico, con cui ha tenuto alcuni concerti a Milano e a Lecco.

Com’è che ti sei trovato un sax tra le mani?
Ho cominciato completamente per caso, nella città dove sono nato, Brive, a nord di Tolosa, con una banda locale, anche come forma di socialità. È da questa brass band che ho avuto uno strumento: mi hanno mostrato un po’ come funziona un sassofono, qualche lezione, ma molto rudimentale. A Brive c’era un altro paio di persone che arrivando dalla classica o dal jazz avevano un interesse simile al mio per il suono. Poi un amico ha ordinato dei dischi, direttamente dalla Fmp, dalla Incus, e non facevamo altro che ascoltarli. E ci dicevamo: allora non siamo solo noi a fare un casino così. Poi ho fatto della musica da ballo, per guadagnarmi da vivere, ma non mi è mai interessata. Intanto lavoravo in fabbrica.

Poi?
A 22 anni sono andato a Tolosa, e lì ho smesso con le orchestre da ballo e ho lavorato su quello che mi premeva molto, il suono e la poesia, e ho collaborato con una compagnia di teatro e con qualche musicista. Per due-tre anni ho continuato a lavorare in fabbrica e nei cantieri, giusto per guadagnare qualcosa. Poi ho visto che suonare per strada non era male, facevo qualche pezzo per tirare su dei soldi, e per il resto improvvisavo. Suonare con il rumore della strada era un’esperienza interessante, da cui ho imparato. E poi c’era gente che si fermava, incuriosita, e mi chiedeva cosa diavolo stessi facendo: ne sono persino nate delle amicizie che poi mi sono rimaste…

E il jazz?
È stato una esperienza molto cattiva. Quelli che suonavano jazz nei gruppi locali a Brive erano completamente ripiegati su se stessi, non avevano nessuna idea di nulla. Noi eravamo giovani e anarchici, ce ne fregavamo del loro jazz di merda. Volevano suonare con noi, fare dei temi, ma noi mandavamo tutto a carte quarantotto facendo veramente di tutto, e questo li rendeva furiosi. Era proprio la guerra, ma ci siamo divertiti molto, eravamo matti. In effetti non sono mai stato legato all’ambiente del jazz, e a i jazzisti che ho incontrato… a parte Elvin Jones! Una volta dovevamo incidere insieme, in studio, per me era un monumento della musica, e quando l’ho visto entrare gli ho detto: «Monsieur Elvin Jones, desolé, ma non sono un musicista di jazz». E lui, molto seriamente: «Ma il jazz non esiste, Michel… è un’invenzione dei giornalisti: noi siamo musicisti, e suoniamo quello che abbiamo nel cuore, il più liberamente possibile». Che lezione!

Il tuo sodalizio con Lê Quan Nin (percussionista, ndr) dura da oltre trent’anni…
È un’amicizia straordinaria, una relazione molto semplice e totalmente libera: non abbiamo mai fatto dei «progetti» assieme, siamo lui e io, degli individui, sempre con un’evoluzione, in maniera aperta; e non abbiamo mai parlato della musica che facciamo assieme, ma l’abbiamo nutrita di tanti approcci e di tante cose ascoltate assieme, dell’esperienza di tanti contesti e della collaborazione con molti altri musicisti. A Tolosa dal ’92 al 2002 abbiamo anche avuto una sorta di associazione, la Filibuste, con cui organizzavamo cose con moltissimi musicisti, da Peter Kowald a completi sconosciuti, e con danzatori, filmmaker sperimentali, pittori, poeti.

Mai fatto delle prove con Lê Quan Nin?
Mai!
Ascoltandoti mi colpisce la tua grande tavolozza di suoni e la tua dedizione al suono…
Dentro c’è tutto il tragitto della mia vita di musicista, l’evoluzione del mio ascolto, la mia esposizione a musiche molto diverse, la trasformazione del mio rapporto con lo strumento. Forse sono sempre più interessato alla frequenza pura del suono: sento e suono delle frequenze sonore, per me c’è una articolazione anche lì dentro, un’altra forma di articolazione. Suonando uno strumento come il sassofono, che ha una tale storia, la sfida è di creare qualcosa di mio: è così che posso ringraziare chi mi ha preceduto. Quando suoni il soprano dopo Sidney Bechet, Steve Lacy, Lol Coxhill, Evan Parker, ecco già quattro mondi favolosi.

Suoni parecchio in spazi «alternativi»: è che i luoghi più ufficiali sono chiusi alla musica improvvisata o è una scelta, anche «politica»?
Un po’ tutti e due i motivi: dire che è una scelta sarebbe esagerato. Non ho mai avuto molte possibilità di suonare in spazi ufficiali, ma adesso ce ne sono ancora meno. C’è qualche festival, in Europa, nel mondo, ma anche in questa musica funziona sempre di più una sorta di star system. E da molto tempo ho smesso di guardare in questa direzione, e mi sono rivolto altrove, dove la scena musicale è viva: l’economia è uguale a zero o quasi, ma ci sono molte iniziative. Di conseguenza devo lavorare e viaggiare sempre: il che implica una vita un po’ nomade, vengo ospitato da persone con cui suono, vivo con loro, mangio con loro, e mi danno quello che possono. Naturalmente capita che di tanto in tanto abbia un buon concerto, pagato normalmente, in cui magari lavoro con una compagnia teatrale. Ma constato che lo spazio pubblico nel quale la cultura dovrebbe avere luogo, con denaro pubblico, è sempre più chiusa all’improvvisazione. Quindi l’undergound non è una scelta, ma qualcosa che il potere ci impone. In Francia per un periodo è andata bene: delle associazioni hanno organizzato concerti e festival, con denaro pubblico, ma adesso questo sta sparendo.

C’è una economia abbastanza povera, ma in compenso c’è anche una sorta di confraternita della musica improvvisata praticamente planetaria. In Europa, negli Stati Uniti, in Giappone…
Sì, questo è veramente qualche cosa di molto importante. Ma spesso questa solidarietà c’è perché non ci sono soldi: non bisogna nasconderselo. Siccome non c’è niente da guadagnare, la gente è molto più solidale, ma appena ci sono dei soldi, allora non si condivide più… Questa fraternità per me dipende molto dal fatto che la situazione economica e sociale della musica improvvisata è molto povera, quindi per sopravvivere bisogna per forza essere solidali. Questo è un aspetto della cosa. L’altro sono gli individui. E ce ne sono – penso a Barre Phillips, a Lê Quan Nin – che portano in sé questa filosofia, questo desiderio di condividere, questa stupidità del comunismo che abbiamo ancora in noi, di essere solidali ed egualitari. Bisogna fare attenzione, la musica improvvisata è un mondo pieno di nuance, di contraddizioni, e per fortuna: vuol dire che siamo vivi. Vivi ma non naïf.

In che senso parlavi di «star system»?
Anche nell’improvvisazione c’è gente che è abbastanza di riferimento, di cui si capisce lo «stile», e sono loro che si vedono spesso suonare. È chiaro che ci sono delle «star» assolutamente fantastiche: si possono fare dei nomi, Evan Parker, Peter Brotzmann, sono meravigliosi, e sono i pionieri di questa musica, e poi ci sono altre generazioni, come Mats Gustafsson: anche loro sono sullo stesso terreno, e hanno dei buoni ingaggi. Tutti musicisti fantastici. Ma la vita di questa musica è sempre in movimento, va avanti continuamente. E spesso i media o gli organizzatori sono molto lenti.

Quindi vedi uno scarto tra la realtà dell’improvvisazione e la sua rappresentazione corrente.
Quando si va nell’underground della musica improvvisata, a Parigi, a Berlino, a volte si trovano dei giovani straordinari. A Berlino per esempio ho scoperto un contrabbassista, Adam Pultz Melbye, 32 anni, che lavora sulla vibrazione, fantastico! Ma in questi posti non vedo mai giornalisti, organizzatori, produttori: invece dovrebbero essere lì, ascoltare della gente che ha venti, venticinque, trent’anni, e metterli su un palco. No, vanno sempre sui vecchi. Quindi c’è un décalage sempre più grande. La musica va avanti, è un po’ come se il tempo andasse verso altre cose e l’ascolto si trasformasse: per esempio c’è appunto la tendenza a considerare sempre di più l’atto vibratorio. Nei festival ci sono ancora dei valori che sono quelli di venti, trent’anni fa. Ottimo, ma adesso? Io ho bisogno di un’esperienza di ascolto che sia rivolta verso il passato, che risuoni con l’oggi